Se non ci fossero di mezzo i “soliti noti” avrei potuto consegnare questo articolo in redazione suggerendo, per una volta, anche il titolo: «La strana storia del maresciallo di Capaci». Ma, annusando l'aria che tira in Sicilia e conoscendo qualche personaggio che incrocia la vicenda, mi sono subito reso conto che di strano in questa storia c'è meno di niente. Al contrario: è tutto a posto.

Un intreccio affaristico con sfumature mafiose, qualche scaltro amministratore sempre in prima fila il 23 maggio a ricordare il giudice Giovanni Falcone, consiglieri comunali ben ammanicati e con addosso una divisa, una proposta di scioglimento di un Comune fatta sparire, un'investigazione insabbiata, un appetitoso terreno dove far sorgere un grande centro commerciale ed - ecco che ogni stramberia svanisce - alcuni amici dell'ormai famigerato Calogero Antonio Montante detto Antonello che riescono a fermare le indagini del maresciallo.

Prima lo incastrano con un'improbabile accusa, poi lo costringono a lasciare il suo incarico, poi ancora diffondono voci che è un visionario, un millantatore e anche un pericoloso disturbatore delle quiete pubblica.

Il disturbatore 

Ricostruendo i fatti sin dal principio, Paolo Conigliaro, comandante della stazione dei carabinieri di Capaci dal 2013 al 2018, un po' di disturbo in paese in effetti l'ha portato. Perché, se fosse stato un po' meno impiccione, oggi sarebbe ancora nella sua caserma senza l'angoscia di doversi districare fra memorie difensive, procure militari e  grottesche denunce. Si sarebbe risparmiato anche avvilimenti e umiliazioni. Ma non è andata così e tutto inizia il giorno in cui - venticinquesimo anniversario della strage di Capaci - il luogotenente Conigliaro sale sul palco al centro del paese e invita «a rivelare comportamenti che sono più dirompenti del tritolo, come l'amministratore pubblico che familiarizza con il mafioso del paese».

Due suoi colleghi, carabinieri che siedono in consiglio comunale, evidentemente si sentono chiamati in causa e lo denunciano per diffamazione.

Il “disturbo” che fa male però non sono quelle parole, è altro. Il maresciallo da qualche mese indaga su un'area artigianale che, al Comune di Capaci, vogliono trasformare in area destinata a uso commerciale. Le carte sono già pronte.

C'è una società che ha un progetto ed è intestata ad Angela Pisciotta, vicepresidente dell'associazione costruttori di Palermo. C'è lo studio Pinelli-Schifani che sostiene legalmente quella società con Schifani che sta per Renato Schifani, l'ex presidente del Senato accusato di fare parte di “una catena di talpe” a caccia di informazioni riservate sull'affaire Montante.

C'è nell'ombra il re dei supermercati Massimo Romano, quasi sessanta punti vendita sparsi per la Sicilia e imputato sempre con Montante a Caltanissetta. Della partita è anche l'avvocato Francesco Agnello, un mediatore che favorisce l'insediamento sul territorio della grande distribuzione, buon amico del senatore Giuseppe Lumia e socio del socio di Montante, l'invisibile Ivan Lo Bello. Tutti nomi che, a vario titolo, sono dentro il grande intrigo con a capo il misterioso siciliano di Serradifalco.

Destituito e cacciato

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Da quando il luogotenente Conigliaro - una lunga esperienza di comando nelle terre trapanesi e tanti anni di onorato servizio in Calabria con immancabile rogo notturno che lo sveglia (auto bruciata) - punta gli occhi su quell'area perde la pace e anche la sua stazione: destituito e cacciato.

Trova riparo al centro operativo di Palermo della Direzione Investigativa Antimafia, dove ancora oggi è in servizio. Come finisce la sua vecchia inchiesta su Capaci? Nel nulla. In procura chiedono l'archiviazione il 5 giugno 2018, un giudice delle indagini preliminari la concede ventiquattro ore dopo. Quando la giustizia, caso più unico che raro, è fulminea.

Mai trasmessa in prefettura neanche la sua relazione su “una proposta di accesso agli atti” al Comune di Capaci, primo passo per un eventuale scioglimento per infiltrazioni mafiose. Eppure qualche elemento c'è: frequentazioni di assessori con condannati definitivi per 416 bis; un monopolio dei lavori del movimento terra; presunte attività di voto di scambio; processioni religiose con inchini di santi e madonne davanti alle abitazioni di un boss, riti ormai famosi che negli stessi mesi portano allo scioglimento del Comune di Corleone.

La sua relazione sulle irregolarità e gli inghippi dell'amministrazione, il sindaco al tempo è Sebastiano Napoli, non arriva mai in Prefettura ma si ferma al comando provinciale dei carabinieri di Palermo. E lì resta.

Il maresciallo si mette a rapporto con i suoi superiori, vuole un incontro con il comandante regionale e con quello generale dell'Arma. Glielo impediscono. Un magistrato del Tribunale di Tribunale di Palermo suo amico lo avverte. Sente puzza e gli dice: «Vai via da Capaci perché ti ammazzano o te la faranno pagare professionalmente, o tutte e due le cose insieme». Quali fili dell'alta tensione ha toccato il maresciallo?
Sempre più isolato, alla fine del 2018, chiede il trasferimento alla Dia e lo ottiene. Ma, qualche giorno prima di prendere servizio, viene convocato in una caserma e ha l'ennesima brutta sorpresa. Interrogato, perquisito, denudato.

Cercano una scheda di memoria nel suo cellulare, cercano “prove” di un'altra diffamazione dentro una chat privata, conversazioni in libertà fra il maresciallo e cinque suoi colleghi. Sembra proprio il pretesto per inchiodarlo. Anche perché - ma si scoprirà successivamente - le chat sono state in parte modificate con sofisticata perizia.

Alla ricerca di quelle schede di memoria, in caserma gli tolgono pure le mutande. Da accusatore Conigliaro diventa accusato. E' solo lui il colpevole. Un'altra indagine, altre rogne. In procura a Palermo lo prosciolgono per la diffamazione delle chat, ma la procura militare di Napoli lo rinvia a giudizio. Le contestazioni sono sempre le stesse, una fotocopia.

Il caso in Parlamento

LaPresse Valeria Ferraro / LaPresse

E' a quel punto che il maresciallo invia un esposto alla Commissione parlamentare Antimafia e viene ascoltato dal presidente Nicola Morra. Il racconto che fa, con abbondante secretazione, è da brividi. Morra decide di acquisire gli atti delle sue denunce sulle "interferenze e ingerenze” al Comune di Capaci che il più delle volte, sia alla procura di Palermo che a quella militare, «non risultano iscritte nel registro delle notizie di reato ma valutate come fatti non costituenti reato». Il presidente dell'Antimafia comprende che sono tante, troppe le anomalie del caso Capaci e decide di aprire un'istruttoria. Cominciano le audizioni.

Nelle settimane a seguire diciotto parlamentari del M5s e del Pd firmano un'interrogazione ai ministri della Difesa, dell'Interno e della Giustizia per scoprire che è accaduto dentro e fuori quell'amministrazione comunale. Intanto Morra presenzia a ogni udienza al Tribunale di Napoli. Vuole capire meglio: «Nel rispetto della giustizia militare che farà il suo corso, questo è un processo che fa luce sull'importanza del sistema Montante e desta l'attenzione della Commissione».

Non tutti sono felici delle curiosità che il presidente dell'Antimafia dedica a Capaci, passano altri mesi e qualche nuovo dettaglio della vicenda viene alla luce. Per esempio il nome dell'ufficiale che ordina al maresciallo di «non scrivere più una riga sul Comune di Capaci». E' il colonnello Giuseppe De Riggi, il comandante provinciale di Palermo. Coincidenza vuole che pure questo colonnello sia scivolato nell'informativa di polizia su Calogero Montante per i suoi contatti con lo stesso Montante ma anche con Angelo Cuva, un tributarista molto legato a Schifani e sotto processo come “talpa” nel processo di Caltanissetta con l'ex presidente del Senato. Niente di penalmente rilevante per il colonnello, solo relazioni di un “contesto” che viene riportato, e con dovizia di particolari, anche nelle motivazioni della sentenza di condanna contro Montante.

Un altro nome che affiora dalle audizioni nonostante gli omissis è quello di Francesco Agnello, già coinvolto nel cosiddetto ‘Sistema Sesto-San Giovanni’ in cui l’imputato principale è Filippo Penati, poi assolto e in parte prescritto. E' il giornalista Rino Giacalone, il primo a scrivere sul quotidiano siciliano online Alqamah le trame di quel centro commerciale, che racconta delle moleste pressioni ricevute da Agnello per fargli cambiare i suoi articoli. Intorno alla piccola Capaci c'è tutto un mondo che preme. E, forse, la storia del maresciallo Conigliaro nasconde qualcosa in più di quanto abbiano fin qui scoperto i magistrati di Palermo.

 
 

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