Nel letto d’ospedale a Nairobi, le garze che fasciano le gambe di monsignor Christian Carlassare, vittima di un agguato nella notte tra il 25 e il 26 aprile, sono il simbolo delle ferite profonde della chiesa cattolica nel Sud Sudan. Le pallottole hanno lacerato solo i muscoli del vescovo, non le ossa: allo stesso modo la prova di forza, ostentata dagli aggressori, non ha intaccato la missione della chiesa nel paese più giovane del mondo, vittima di sé stesso e dell’indifferenza internazionale: «Il nord del mondo non può girare le spalle dall’altra parte: ci sono responsabilità comuni ed è tempo di una visione globale per risolvere i problemi tutti insieme», dice il giovane vescovo. Ha la voce flebile, ma piena di vigore: «Io sto bene, sono in un letto di ospedale, sto migliorando di giorno in giorno e le mie ferite guariranno. Tornerò a camminare e tornerò a camminare in Sud Sudan».

Una grande responsabilità

L’8 marzo scorso papa Francesco lo ha nominato, appena 43enne, vescovo della diocesi di Rumbek. E così il più giovane presule cattolico italiano raccoglie il testimone del suo predecessore, Cesare Mazzolari, che nel giorno dell’indipendenza del Sud Sudan, il 9 luglio 2011, invitò a chiedersi «non cosa faranno gli altri per noi, ma cosa noi, sud sudanesi, faremo per il Sud Sudan (…). Non dovremmo dipendere da ciò che altri ci offriranno, ma dal duro lavoro delle nostre mani».

In queste ore Carlassare ricorda quelle parole, attuali più che mai: «Mazzolari ha fatto ripartire una diocesi in rovina quando c’erano guerra, fame e povertà. Per me è una grande responsabilità essere al fianco di un popolo che ha ancora bisogno di aiuto per superare la violenza in questa regione». Per la chiesa cattolica, camminare in Sud Sudan significa immergersi nei conflitti tra clan, sciolti fra varie etnie che lottano per accaparrarsi le risorse. Secondo gli ultimi dati forniti dalla Fao, l’insicurezza alimentare è tale che in alcune aree si prevede un’ondata di carestia lunga diversi mesi, almeno fino al prossimo luglio.

Dalla pace alla pacificazione

L’agenzia di informazione Aci Africa riferisce che, tra le dodici persone presumibilmente coinvolte nell’agguato al giovane vescovo, vi sarebbero tre chierici di etnia dinka, la stessa a cui appartiene il presidente del paese, Salva Kiir, attore di un logorante processo di pace con il il vicepresidente designato, Riek Machar. Il conflitto è così profondo e trasversale che anche la chiesa diventa un ring per rivendicare il potere: «La pace non è mai un traguardo, ma la strada che si deve percorrere – dice Carlassare – si stanno facendo grossi passi in avanti: ora, però, è tempo di passare da una pace statale, spinta dal governo di unità nazionale, a una pacificazione nei territori, tra gruppi etnici. È sul territorio, infatti, che ci sono le problematiche più forti, come le contese sulla terra e le risorse come i pascoli e le vacche. Infine, va anche risolto il problema della militarizzazione nel paese: se le armi arrivano a tutti i gruppi che si fanno giustizia per ottenere le risorse da sé e non si fidano del percorso di unità del paese, si cade in una spirale di violenza senza fine».

Da solitudine a solidarietà

Tutta l’area dei laghi del Sud Sudan è attraversata da un filo di sopraffazione e la diocesi di Rumbek è fra i contesti più fragili: «Quando si vive in città come Tonji, Rumbek o Yirol, si percepisce un certo sviluppo, come la possibilità di andare a scuola o accedere ad alcuni sevizi essenziali. Ma nelle zone più marginalizzate della regione, invece, manca tutto: sono migliaia i bambini che non hanno un’istruzione adeguata, per esempio. Occorre impegnarsi per la loro emancipazione da una realtà dura, da clan che li spingono a indossare una maschera di violenza per sopravvivere. Quando tutti saranno in grado di migliorare la loro vita, allora ci sarà possibilità di vivere nella pace e risolvere i problemi in modo adeguato» spiega Carlassare, e nelle sue parole riecheggia la stessa speranza mista alla dura realtà espressa addietro dal suo predecessore Mazzolari che, all’indomani della sanguinosa guerra civile in Sudan, citando il Salmo 51, evocava un Dio che non si compiace degli eccidi: «Sacrificio che tu non vuoi, ma che ancora oggi crea morte, fame, profughi e atrocità umane provocando sofferenza nella nostra terra e il cui sangue oggi presentiamo a te». L’educazione, volano in un’area densamente popolata dai giovani, è un pilastro importante. In loco le Nazioni unite si stanno impegnando per garantire l’istruzione a circa 806mila i giovani, di cui il 51 per cento ragazze: «Questo paese è il mio paese, sento anch’io di portarne il destino. Le necessità e i bisogni del Sud Sudan mi chiamano a imbracciare questo percorso da fare insieme al popolo, senza abbandonarlo in questo percorso. In questa causa comune, la solitudine va soppiantata dalla solidarietà», sottolinea il vescovo.

La diocesi ferita

Lontano dall’ombra della capitale Juba, dove nel settembre 2018 il governo del Sud Sudan e i gruppi di opposizione hanno firmato un accordo di pace, i negoziati scricchiolano. Nelle aree marginali costellate dai villaggi, anche la pace si frammenta e le differenze etniche sono solo un pretesto per accaparrarsi le risorse. Nella regione, possedere bestiame fa la differenza, al punto tale che anche le vacche sono date in dote. Come spiega Cherry Leonardi, docente di storia africana e autrice una monografia dettagliata sul tema, gli scontri tra le comunità sono benedetti da capi designati dal popolo, i majokwut, che hanno un grande potere a livello locale. Dalla loro autorità dipende il sostentamento della comunità e questo contribuisce alla creazione di clan che si fanno guerra a vicenda. I conflitti, spesso sanguinosi, generano un movimento di sfollati che preme sui servizi essenziali, di per sé già precari: il report stilato quest’anno dall’ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari riporta che oltre 8 milioni di sud sudanesi, inclusi 300mila rifugiati e richiedenti asilo, necessitano di assistenza umanitaria. Delle 79 contee in cui è suddiviso il paese, 72 sono state classificate in bisogno umanitario estremo e cinque versano in gravi condizioni. Per questo, con un occhio alle sue ferite, il pensiero di Carlassare va alla sua diocesi: «Anche lì ci sono ferite che hanno bisogno della stessa compassione ed attenzione. A differenza della mia, che avverrà per grazia di Dio, la guarigione di Rumbek è quella più importante e richiede grande impegno. Ci vorranno attenzione e amore, perché solo così si può davvero convertire e suturare le divisioni».

Uno sguardo diverso

Agli inizi di aprile, il paese ha dato l’ultimo saluto a un punto di riferimento per i sud sudanesi, l’arcivescovo emerito di Juba, Paolino Luduku. Il suo impegno per la difesa dei diritti umani e dell’ecumenismo è riconosciuto a livello internazionale, e due giorni fa la chiesa anglicana gli ha assegnato postumo il Lambeth Award per il suo contributo di pacificazione nei decenni della guerra civile in Sudan: «Si è espresso con coraggio contro la disumanizzazione e ogni tipo di abuso contro i non musulmani, specialmente durante il regime di l’ex presidente Omar Hassan Al Bashir, mostrando leadership di fronte al pericolo imminente per la sua vita» ha detto il primate di anglicano, Justin Welby.

L’arcivescovo di Canterbury era al fianco di papa Francesco quando, esattamente due anni fa, il pontefice implorava la pace baciando i piedi dei leader sud sudanesi convocati a Casa Santa Marta: «Papa Francesco è un uomo dal cuore grande, che ha uno sguardo globale. Penso che l’Africa si meriti questo sguardo, che la vede come una parte che può dare un grande contributo al mondo», dice Carlassare, che ammette di non aver ancora ricevuto la telefonata del papa: «Ma sono certo che sta pregando per me. Il suo messaggio nell’enciclica Fratelli Tutti suggerisce uno spirito fraterno verso tutti i popoli marginalizzati e messi da parte. Mi sento in comunione con lui che è padre, maestro e apostolo. Accetto tutto quanto mi è accaduto in spirito di unità nella chiesa, perché questa non è la mia missione: è la missione della chiesa del Cristo che crede nei poveri, nella resurrezione e nella trasformazione della vita del mondo», dice con un filo di voce.

Il giovane vescovo è debilitato, ha perso molto sangue, ma nelle sue parole esprime tutta la forza della missione affidatagli nell’ultima diocesi di un paese dimenticato, testimonianza di una chiesa che non arretra, nemmeno quando realizza che la strada verso la pace coincide con quella al martirio: «Mi sono trovato davanti alla vita e alla morte e alla possibilità di vivere fino in fondo il messaggio che nutro nel mio cuore, cioè quello del Vangelo – confessa -. Quando ho capito di avere di fronte persone armate e pronte a sparare, mi sono affidato al Signore e l’ho sentito lì presente. Tutto quello che sarebbe successo da lì in poi sarebbe stato nelle sue mani. Io avrei potuto solo testimoniarlo, nella vita o nella morte. Ero pronto a tutto».

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