Sapevamo da sempre che quel cioccolato era come lo facevano gli Aztechi, ricetta tramandata generazione dopo generazione dalle nobili famiglie spagnole che nel XVI° secolo governavano la Contea di Modica, conquistadores di ritorno dalle Americhe. Pasta di cacao lavorata a freddo, prima i granelli di zucchero che addolciscono il palato e qualche istante dopo l’amaro che inaspettatamente si mischia in bocca. Però in Sicilia non c’è mai pace, la smania di riscrivere la storia fa vacillare un mito che resisteva almeno dal 1880, data di nascita nella parte più meridionale dell’isola di un’“aromateria“ che fra i suoi scaffali conservava pacchi di polvere di zinco, allume e canfora, argento vivo, cumino, ambra gialla e bianca, rhum giammaico e anche una cioccolata fina, quella che allora si somministrava come bevanda energetica a chi soffriva di «forze abbattute» o come «rinvigorente» agli sposi novelli dopo la prima notte di nozze. Un dono degli antenati dei messicani.

Tutto da dimenticare, tutto da cancellare. Quella cioccolata non aveva radici azteche come ci hanno sempre raccontato ma era sicilianissima, per la precisione di Modica, «un paese in figura di melagrana spaccata» come ne scrive Gesualdo Bufalino nelle prime righe del suo Argo e il cieco.

È una guerra che si è scatenata negli archivi, con una caccia a documenti e a manoscritti che attesterebbero la vera origine della cioccolata modicana, contesa nella quale non sembrano estranee esigenze di mercato e l’attenzione a norme europee in materia di marchio.

Comunque sia, cominciamo col dire che la cioccolata di cui parliamo è buonissima e molto speciale. Se ne produce tanta, ogni anno di più. Al sale, al pepe nero, alla vaniglia, al limone, alla noce moscata, all’arancia, alla cannella, al peperoncino. E se oggi è famosa, e questo è fuori discussione, lo si deve a Carmelo Ruta e a suo figlio Franco che cominciarono a lavorarla in una piccola bottega accanto alla Salita De’ Barbieri, la ripida scalinata che si arrampica su per il Cartellone, il quartiere ebraico di Modica.

In un pueblo vicino ad Alicante

Per farne scorta da regalare agli amici di Palermo e di Roma, dall’altra parte della Sicilia lì arrivava di tanto in tanto Leonardo Sciascia. Partiva dalla sua Racalmuto, si fermava a Comiso dove viveva Bufalino, e insieme puntavano su Modica dove trascorrevano qualche ora nella bottega dei Ruta. Scene siciliane di cinquant’anni fa. «Io già lo conosco, proprio di questa forma e con questo colore bruno, l’ho assaggiato in un piccolo pueblo vicino ad Alicante», disse un giorno Sciascia mentre ne addentava un pezzo, lucido di fuori e granuloso dentro.

Solo qualche tempo dopo – siamo già nel 1983 – lo scrittore di Racalmuto dedicò, fra le pagine del saggio La Contea di Modica, un ricordo a quel cioccolato: «Altro richiamo per restare alla gola…È di due tipi, alla vaniglia e alla cannella, da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazze: di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione».

Modica è un luogo molto particolare, ricostruita come un palcoscenico di pietra dopo il catastrofico terremoto del 1693 che rase al suolo mezza Sicilia orientale, cattedrali incastrate nelle piazze, palazzi monumentali, scalinate, vicoli, chiostri, sculture, un tripudio di capitelli, un’architettura che stordisce. La città è sempre stata rivale di Ragusa, entrambe sotto amministrazione di Siracusa fino a quando il Duce – nel 1927 – elesse Ragusa a capoluogo di provincia durante una sua visita in Sicilia.

Gli presentarono Modica, così almeno racconta la versione ufficiale, come «un covo di socialisti». Ma la voce popolare ha una variante più maliziosa: la bramosia di Mussolini per la provocante moglie brasiliana del deputato fascista ragusano Filippo Pennevaria. In ogni caso Modica, che era di gran lunga più “importante” di Ragusa, è uscita amministrativamente di scena. Ma il cioccolato è rimasto dov’era e dove Francesco Ignazio Bonajuto (l’avo di Carmelo e Franco Ruta) almeno centoquaranta anni prima aveva ottenuto una patente governativa di «caffettiere» e aperto la sua bottega. Fortuna sua e fortuna di una città che ha avuto il destino segnato anche da quel piccolo grande tesoro.

Un Regno nel Regno

L’avventura è raccontata in un bel libro, La Dolceria Bonajuto, storia della cioccolateria più antica della Sicilia, firmato da Giovanni Criscione, uno storico che ha descritto lo spirito d’impresa di una famiglia siciliana e la singolarità di Modica, un Regno nel Regno che durante la dominazione spagnola assorbì usi, costumi e cibi della madrepatria. Cioccolato compreso, lo xocoatl precolombiano.

Troppo facile e troppo bella la favola. Negli ultimi anni dagli archivi sono affiorati atti che smentirebbero l’eredità azteca, note spese di una partita di cacao che proverebbero già nel 1746 una produzione autoctona. Una “certezza anagrafica” ritrovata dalla storica Grazia Dormiente, che fa risalire la nascita del cioccolato di Modica a Casa Grimaldi, un lontano ramo siciliano della famiglia dei più famosi Principi di Monaco.

Ne è nata una baruffa che si trascina a colpi di attestati rinvenuti fra polverose carte di qualche secolo fa, da una parte i sostenitori del “made in Modica” e dall’altra quelli affezionati alla leggenda messicana, sicuri che il cioccolato finito sulle tavole dei ceppi più aristocratici modicani venisse importato da Palermo.

C’è un Consorzio di Tutela del cioccolato di Modica e dal 2019 dall’Unione europea ha ricevuto il riconoscimento Igp, quello di Indicazione Geografica Protetta. Ironia della sorte da questa nuova impresa è rimasto fuori l’erede dei Ruta, Pierpaolo, l’unico che paradossalmente – pur avendolo prodotto per primo – non può chiamare “cioccolato di Modica” il suo.

Ogni tanto Pierpaolo sparisce e va a esplorare piantagioni dall’altra parte del mondo, le haciendas di cacao nella regione di Barlovento in Venezuela. Torna sempre con la stessa convinzione: «Io continuerò a fare il cioccolato come lo faceva mio padre e come lo faceva mio nonno».

© Riproduzione riservata