Da quando la rivoluzione industriale, la meccanizzazione agricola, lo sviluppo della chimica e da ultima la ricerca genetica ci hanno liberati dal pericolo della fame, il cibo ha smesso di farci paura per la sua assenza e ha cominciato a farci paura per la sua abbondanza. Oggi in occidente siamo più preoccupati dal rischio di ingrassare piuttosto che da quello di dover saltare un pasto.

Addirittura, ci sono fior di medici e dietologi che ci spiegano le innegabili virtù del digiuno; cosa che sarebbe apparsa del tutto assurda solo sessanta o settant’anni fa. Ma non per questo le paure legate al cibo sono sparite, anzi, semmai sono aumentate. Certo, le fobie legate alla qualità degli alimenti esistevano anche nelle società antiche, sempre alle prese con il pericolo molto concreto della carestia, ma i meccanismi psicologici che innescavano quelle paure sono più o meno gli stessi di oggi, non sono quindi la scarsità o l’abbondanza a determinare i timori nei confronti del cibo.

Nel passato tali paure riguardavano solamente coloro che non erano nelle condizioni di procurarsi il cibo autonomamente e quindi dovevano rivolgersi a figure professionali: macellai, ortolani, pescivendoli, fruttaroli, panettieri, salumai, e così via. Insomma, per dirla in poche parole, storicamente le paure alimentari si sviluppano nelle città più che nelle campagne, dal momento che, come si sa, i contadini consumavano direttamente ciò che producevano. Il cittadino, al contrario, non sapeva che cosa mangiava e questa angoscia lo tormentava e ne aumentava le paure. Allora, come oggi.

Paure vere e paure inventate

Per questo gli statuti di tutte le città europee a partire dal XII e XIII secolo si dotarono di regolamenti sempre più stringenti in materia di controlli alimentari. Il problema era che le conoscenze scientifiche e il concetto di igiene erano estremamente vaghi e spesso intrecciati con la magia e la superstizione. Non solo, ma questi regolamenti venivano scritti in accordo con le corporazioni professionali, per cui la salute dei consumatori veniva quasi sempre sacrificata sull’altare degli interessi economici di macellai, pescivendoli, panettieri, ecc.

Nonostante questo, i regolamenti sanitari urbani ci forniscono molte notizie sulle reali paure dei nostri avi. Ad esempio, una delle ossessioni più diffuse nel Medioevo e nell’Età moderna era quella delle lebbra suina, una malattia del tutto inesistente, ma che per parecchi secoli rappresentò un vero e proprio incubo in Francia, in Italia e in Spagna; medici, ufficiali di sanità e governatori cercavano ogni più piccolo sintomo di questa immaginaria malattia per poter sequestrare una determinata partita di carne di maiale e dimostrare in questo modo ai cittadini che ci si stesse occupando della loro salute.

Un’altra regola aurea era quella della velocità. In assenza di frigoriferi, le derrate alimentari dovevano essere vendute nel più breve tempo possibile; questo valeva per la frutta e la verdura, ma valeva soprattutto per il pesce e per la carne. Il pesce pescato alla mattina doveva essere venduto entro mezzogiorno, quello che rimaneva sui banchi doveva essere regalato alle istituzioni di carità o, in casi eccezionali, poteva essere rimesso in vendita il giorno successivo, ma con la coda tagliata per dimostrare ai clienti che non era di giornata. Lo stesso valeva per la carne: ogni giorno si lavoravano quantità limitate, abbattendo gli animali a seconda del bisogno.

Il valore dell’esperienza

Ma era sempre l’esame diretto a stabilire di volta in volta se la carne di un determinato animale poteva essere venduta o se un certo frutto poteva essere introdotto nel mercato cittadino. I regolamenti e le istruzioni per gli ufficiali di sanità divennero sempre più meticolosi, in alcuni casi addirittura pedanti; del maiale si doveva osservare soprattutto la lingua, mentre degli ovini bisognava controllare la presenza di pustole nel ventre. Le capacità di questi controllori non derivavano solo dalle regole scritte e dai trattai di medicina, ma erano forgiate anche dall’esperienza; loro “sentivano” se una bestia era malata, perché questo tipo di sapere è intimamente connesso ai sensi e in particolare all’odorato.

E nelle lingue neolatine questo forte legame tra olfatto e conoscenza è testimoniato dall’espressione “sapere di…”, nel senso di avere un sapore o un odore, offrendo una traccia che ricorda qualcosa di conosciuto. Insomma, c’è un filo sottile che unisce ancora il nostro approccio al cibo e alle paure che ci provoca con i comportamenti istintivi degli uomini primitivi, passando per i regolamenti medioevali e gli statuti corporativi.

© Riproduzione riservata