Con il tritolo e le bombe intimidivano i commercianti della zona per pagare il pizzo. La cocaina, invece, arrivava direttamente dalla Grecia. È lo stesso boss del clan brindisino del quartiere Sant’Elia a parlare degli affari della sua organizzazione ai magistrati di Lecce.
È iniziato tutto a metà dicembre scorso quando Andrea Romano, 35enne di Brindisi, ha detto ai magistrati di voler collaborare con la giustizia. A dare la notizia il pm della procura antimafia Guglielmo Cataldi in apertura dell’udienza per l’inchiesta «Synedrium» in cui Romano è imputato insieme ad altre 58 persone facenti parte, secondo l’accusa, di un presunto gruppo mafioso di Brindisi.

Ora quel presunto gruppo criminale è realtà e a parlare dei suoi loschi affari è proprio il boss in persona. Romano è accusato di aver promosso e diretto un sodalizio di stampo mafioso implicato nel traffico di droga e nelle estorsioni a Brindisi e provincia a partire dal 2014.

L’alias di Andrea Romano è “Ramarro”, un soprannome ereditato dal padre Gino, morto dopo essersi salvato da una guerra intestina alla Sacra corona unita. Romano sta scontando una pena all’ergastolo per aver ucciso Cosimo Tedesco nel suo appartamento nel novembre del 2014.

Tedesco fu ucciso per un litigio la mattina dopo la festa di Halloween organizzata per il compleanno di una bambina. Quell’appartamento si affaccia alla piazza Raffaello del quartiere Sant’Elia e negli anni è diventato una sorta di base operativa per il clan che vi faceva le sue riunioni. A comandare il gruppo criminale c’era anche Alessandro Coffa, il cognato di Romano.

Il primo verbale firmato dal nuovo collaboratore di giustizia risale allo scorso 18 dicembre, quando dal carcere di Saluzzo Romano chiese di incontrare i procuratori dell'antimafia di Lecce per rilasciare dichiarazioni accusatorie. Dopo quell’incontro il boss è stato trasferito in una località segreta. Fino a oggi ci sono stati altri cinque interrogatori con i magistrati, l’ultimo lo scorso 22 gennaio.

Tritolo e cocaina

«Avevo la disponibilità di bombe C4 e di tritolo che servivano per eseguire atti intimidatori ai danni di esercizi commerciali» racconta ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Lecce.

Andrea Romano rivela che gli esplosivi li hanno usati per costringere gli imprenditori a versare somme periodiche di denaro nelle casse dell’organizzazione.

«Per la cocaina il nostro canale di approvvigionamento era la Grecia». La droga era rifornita ogni mese con quantitativi di trenta, quaranta chili a consegna. Le sostanze stupefacenti venivano caricate nelle navi che dalla Grecia arrivavano a Brindisi. Da qui, la cocaina veniva smerciata nelle grandi città e piazze di spaccio di Bari, Roma e Napoli.

Carcere: tra pizzini e cellulari

Nei verbali delle deposizioni di Romano, pubblicati per la prima volta dall’agenzia LaPresse, il boss ha anche riferito di essere riuscito a comunicare con l’esterno attraverso una finestra nell’infermeria del carcere in cui era detenuto dopo essere stato arrestato per l’omicidio di Tedesco. La finestra dava sulla strada permettendo la consegna di testi scritti, i cosiddetti pizzini, con i quali il boss impartiva le indicazioni per la gestione delle attività illecite del clan. I pizzini venivano inviati durante il cambio degli agenti penitenziari grazie alla complicità dei detenuti ricoverati in infermeria.
Non solo pizzini però. Lo stesso Romano ha dichiarato che da quando è detenuto ha avuto «piena disponibilità di telefonini cellulari in carcere», strumenti che gli permettevano di comunicare facilmente e rapidamente con il resto dei membri del sodalizio criminale.

La guerra per il controllo della città

Romano era pronto a fare la guerra nei confronti di chi non chiedeva il suo benestare per la gestione delle attività illecite. Di armi e tritolo ne aveva in abbondanza. Era lui stesso a decidere quali dovevano essere le piazze di spaccio e la suddivisione degli introiti. «Dovevano dare tutti conto a me, perché avevo il controllo della città di Brindisi» racconta il collaboratore di giustizia.

Il ruolo delle donne

Delle donne del clan parlò per la prima volta Roberto Leuci il quale ha ammesso di essere stato «un affiliato di Andrea Romano, con il grado di settima». Anche lui collaboratore di giustizia ha spiegato agli inquirenti la gerarchia del clan e il ruolo delle donne al suo interno: «In particolare il clan Romano è così composto: al vertice c’è Andrea Romano; suo consigliere e finanziatore di tutte le attività illecite è il cognato Sandro Coffa, marito di Maria Petrachi; poi vi sono Francesco Coffa e Sandro Polito». Oltre a questi: «Sullo stesso livello vi sono altresì la moglie di Andrea Romano, Angela Coffa, sorella di Sandro, e Francesco Coffa. Preciso – c’è scritto nel verbale – che Angela Coffa attualmente è la reggente del clan poiché gli uomini facenti parte della famiglia sono tutti detenuti. Unitamente ad Angela Coffa, vi è la sorella Annarita Coffa che la coadiuva nelle attività illecite». Secondo le dichiarazioni dei pentiti il clan sarebbe in mano alle donne della famiglia dopo gli arresti, una constatazione verificata e sostenuta anche dai magistrati.

Inoltre, sei diverse persone hanno già chiarito agli investigatori che il clan Coffa-Romano era affiliato alla Sacra corona unita. Una delle testimonianze più chiare è stata quella del collaboratore Fabio Luperti che racconta: «Ero in carcere assieme a Luigi Errico…nel periodo 2004-2005…e mi disse che aveva affiliato un po’ di ragazzi, Sandro Coffa e il figlio di Gino Romano, Andrea. Considerato che erano tutti gli affiliati di giovane età manifestai la mia perplessità ad Errico e questi mi rispose che erano loro che avevano manifestato ripetutamente la volontà di affiliarsi a lui e che comunque li riteneva ragazzi di azione da impiegare in qualsiasi fatto delittuoso».

Da una località segreta i magistrati di Lecce sperano che Romano possa rivelare importanti informazioni. L’obiettivo è anche quello di colpire i vertici della Sacra corona unita. Nel frattempo, un chiosco acquistato da Romano in piazza Di Summa, a Brindisi, è stato distrutto da una bomba. Lo scorso 15 gennaio il collaboratore di giustizia aveva rivelato ai magistrati che lo aveva acquistato e ristrutturato con i proventi delle attività illecite. 

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