L’allenatore ha trovato i perché dello sfascio romano e li ha smontati e rimontati in modo diverso. I calciatori sono gli stessi, l’ambiente e la società pure, l’unica cosa che è cambiata è la lingua. E lui possiede quella per arrivare ai giovani
È evidente che Claudio Ranieri possegga un valore fondamentale: il distacco senza perdere l’emozione. È come se a ogni partita, allenamento e intervista dicesse quello che gli altri non dicono: questo è un mestiere bellissimo, troppo bello per farselo rovinare dai veleni, dalle ossessioni o peggio dai numeri.
Ristabilite le priorità, subentra l’ambizione: non solo come sfida all’ambiente, all’orizzonte calcistico, ma anche interiore. Tenuta a bada come faceva Gabriel García Marquez che diceva di prepararsi a scrivere un articolo pensando che sarebbe stato il miglior articolo mai scritto su quel determinato argomento. Poi non importava se scrivendo la sua aspettativa diminuiva, quello che rimaneva era l’entusiasmo che stava passando alla pagina e poi ai lettori.
Rimontare i pezzi
Insomma, Ranieri lo sa che è un gioco, dove «si vince, si perde, si pestano merde», come cantava Jovanotti, ma proprio per questo lo smonta e rimonta, e in questo smontare e rimontare fa crescere i suoi calciatori, rimette in sesto le squadre, riporta l’armonia e incute entusiasmo.
Quando è arrivato alla Roma post Jurić e post De Rossi era tutto a pezzi – squadra, società, ambiente – e c’era da gestire la paura di andare in serie B: la squadra galleggiava a due punti dalla zona salvezza.
Ora che – come ha detto – sono al curvone prima dell’ultimo rettilineo, come se fosse una corsa di cavalli, la Roma è un’altra squadra: vince in campionato e va avanti in Europa League. Ferma il Napoli, travolge il Monza e batte il Porto.
I giocatori sono rinati – segna persino Cristante – e hanno recuperato il rapporto con i tifosi, la società è sempre lontana, al di là del mare, ma almeno ora ha uno di casa a Trigoria capace di far girare tutto e bene.
La cura Ranieri va dalla serenità alla verticalità. Primo: stare calmi. Secondo: darla in avanti perché la porta da assediare è quella degli avversari. «Il primo anno che sono andato in Spagna, dopo il primo allenamento ho fermato la squadra e ho detto: “Oh, la porta avversaria sta dall’altra parte. E quando ci arriviamo?”».
«Gruppo sano»
In mezzo c’è una andatura musicale fatta di ritmo e fiducia, pallone semplice e amicizia vera come testimonia quello che Ranieri ha raccontato dopo la partita col Monza: «Un giocatore mi aveva chiesto il permesso per andare a trovare il padre e io avevo detto di no perché c'era allenamento. Poi sono intervenuti Dybala e Paredes che me lo hanno richiesto e allora ho dato l’assenso. Questo per farvi capire che il gruppo della Roma è un gruppo sano».
Il calciatore del permesso è Evan N'Dicka, la parola magica, invece, è gruppo sano, e per capirlo bisogna riandare agli assedi fuori ai cancelli del campo di allenamento, alle auto dei calciatori fermate da checkpoint di tifosi che chiedevano conto della mancanza di volontà, alle facce tristi in campo e in panchina e sugli spalti, alle storie di risse vere o presunte nello spogliatoio, alle nuvole fantozziane sulle fasce laterali della Roma.
Ora, invece, c’è il sole, e quel sole si chiama Ranieri e splende a Trigoria, all’Olimpico e persino fuori casa. Uno che ha la serenità e le battute di Nino Manfredi – nei film di Gigi Magni – quando risuolava le scarpe di giorno ai cardinali e poi ne scompigliava i pensieri di notte. Ciabattino e pensatore. Artigiano e filosofo.
I sergenti non pagano
La sua vita da allenatore è fatta da schiena dritta e tenerezza, regole e non proclami, allenamenti e dialogo e non urla da sergente di Full Metal Jacket. Ora che tutti l’hanno capito che i sergenti non pagano – tranne Ibrahimović al Milan innamorato di Fabio Capello reso umano dalla marcatura dei suoi accenti in inglese da Max Giusti – e che i Sérgio Conceição hanno le partite contate, e che persino gli Antonio Conte provano a praticare la dolcezza, Ranieri potrebbe dire romanamente: «E che ve sto a dì da anni?».
Di stare boni, chioserebbe Alberto Sordi. Perché Ranieri è un allenatore di calma. Ha aspettato Dybala, citando Mourinho, «C’è una Roma con Dybala e una senza Dybala». Ripagato. Ha rimesso in circolo Paredes e Hummels che Ivan Jurić aveva messo tra le cose da buttare. Tutto facile ora, ma come disse un altro grande poeta, Panatta, Adriano, un Trilussa con la racchetta: «Viecce te».
Cambiamento di lingua
Infatti gli altri che c’erano andati avevano usato le maniere forti. Jurić era tutto meno che uno disposto al dialogo e alla dolcezza. Invece con la cura Ranieri ora Dovbyk e Alexis Saelemaekers segnano e Angeliño sembra la controfigura di Roberto Carlos.
La Roma costruita male, a detta di tutti, nelle mani di Ranieri si è raddrizzata, e ora corre, gioca e vince. Mihály Csíkszentmihályi, psicologo, sostiene che «se il leader dimostra che il suo proposito è nobile, che il lavoro permetterà alle persone di connettersi a qualcosa di più grande e più permanente della loro esistenza individuale, la gente darà il meglio di sé all’impresa».
Ecco cosa ha fatto Ranieri. Ha trovato i perché dello sfascio romano e li ha smontati e rimontati in modo diverso. I calciatori sono gli stessi, l’ambiente e la società pure, l’unica cosa che è cambiata è la lingua. E Ranieri possiede quella per arrivare ai giovani.
Ha attraversato l’Europa calcistica, visti campi di ogni genere e qualunque situazione e società, e quindi ogni storia è una storia già vista, ma lui ha imparato a distinguere e distinguendo ad ascoltare. È come se dicesse: «Non voglio essere peggiore di quanto sia già stato», è capitato anche a lui di sbagliare, claro. E voi ragazzi avete già consumato il bonus di partite da sprecare in una stagione.
L’uomo delle emergenze
È evidente che ora ci sia un gruppo sano, perché c’è un leader sano che conosce la vita – sui campi e fuori – e che era già entrato nell’età del riposo, prima della chiamata a Roma si era ritirato, voleva al massimo una nazionale, pur avendo avuto la Grecia – brutta esperienza, anche se lui non direbbe mai brutta, ma infelice, prendendosi le colpe.
Ranieri non ha più nulla da perdere, per questo va all’essenza. Parla ai suoi calciatori come gli angeli di Wim Wenders parlavano ai berlinesi, è già nel dopo panchina e quindi non ha ossessioni, chiede loro la semplicità e il divertimento, niente di complicato, nessun eccesso se non nella ricerca del gol. Se c’è una disciplina è nella coerenza della semplicità.
Se c’è una ossessione è nel rispetto del gioco. Se c’è una richiesta è nella limpidezza d’espressione. Ranieri sa che la cosa più importante dopo il pallone è la parola. Il calcio senza parola è poca cosa, dice Jorge Valdano. E il calcio di Ranieri è fatto di pallone in avanti e parole a sostenerlo. A Roma è diventato l’uomo delle emergenze.
Un po’ erede di Mazzone, un po’ figlio di Liedholm anche se lo scudetto non l’ha portato, ma per un paradosso ha portato la serenità nell’anno più difficile della Roma. Quando tutto sembrava perduto è arrivato lui. Calma, pallone e fiducia. Così mentre il resto d’Italia, da Napoli a Milano passando per Torino si danna, Roma con Ranieri può godersela secondo il teorema Benedetta Pilato: restare a un centesimo dai campioni e gioire per la gara disputata.
Poi non sarà così, ma anche se così fosse, è questa la lezione di Ranieri. Dialogo, divertimento, decompressione. Una stagione riacchiappata per i capelli, rimettendo in circolo La Joya.
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