Il caos è qui. L’edificio istituzionale del calcio è pronto a esplodere. L’ultimo episodio della saga contrappone la Fifa e alcune fra le principali leghe professionistiche europee. Il tema è quello dei calciatori da concedere alle nazionali extra-europee.

Tutto prevedibile, frutto della guerra di tutti contro tutti che è ormai un codice interiorizzato. Si tratta soltanto di registrare quali siano, di volta in volta, gli attori che andranno allo scontro e quelli che stringeranno alleanze di brevissimo respiro. Ma nonostante tutto quello che sta accadendo in questi giorni continua a destare sorpresa.

Le indigeste quarantene

È stato sufficiente arrivare alla prima sosta stagionale per l’attività delle nazionali. Un passaggio che regolarmente provoca il disappunto dei club europei, specie se si tratta di fornire i propri calciatori alle nazionali extra-europee. I motivi di tale avversione sono noti. Al rischio infortuni, che riguarda i calciatori convocati anche dalle nazionali europee, si aggiunge la lunghezza del viaggio intercontinentale che restituisce ai club giocatori stanchi, spesso a ridosso di una gara di campionato.

Ma nei giorni della pandemia, con le differenti situazioni dei singoli paesi e il mosaico di misure di contenimento, agli aspetti problematici elencati sopra se ne aggiunge uno: l’obbligo di quarantena per i calciatori rientrati in Europa da paesi considerati particolarmente a rischio sotto il profilo sanitario. Con periodi di confinamento che possono toccare i dieci giorni.

Una condizione inaccettabile per i club, che a quei calciatori pagano il salario per vederseli mettere out d’ufficio a causa delle convocazioni in nazionale.

Quanto basta per spingere i medesimi club ad azionare l’opzione del rifiuto: nessuna concessione dei propri calciatori alle rappresentative nazionali dei paesi considerati a rischio. E in questa battaglia le società di calcio hanno trovato pieno appoggio da quei soggetti istituzionali che nel recente rimescolamento degli assetti politici sono apparsi più fragili: le leghe nazionali.

La Premier dà il via

Il primo colpo è stato battuto dalla lega professionistica per eccellenza, la Premier league inglese. Che oltre a essere il soggetto più forte fra le leghe europee, perché organizzatore del torneo che legittimamente si fregia dell’etichetta di Nba del calcio, deve anche fare i conti con la stretta disciplina anti-Covid voluta dal primo ministro Boris Johnson.

Secondo questa disciplina i soggetti che giungano in Inghilterra dai 26 paesi compresi nella lista rossa, perché considerati ad alto rischio, devono rispettare una quarantena di dieci giorni e poi sottoporsi a test di idoneità.

Il provvedimento andrebbe a colpire calciatori della Premier chiamati a giocare partite in Argentina, Brasile, Perù, ma anche in Egitto. E i nomi coinvolti sono rilevanti. Fra gli altri: Mohammed Salah, Yerri Mina, Davinson Sanchez, Alisson Becker, Fabinho, Firmino.

Per i club che hanno tesserato questi calciatori, la prospettiva è rinunciarvi per un periodo di circa tre settimane. Una prospettiva inaccettabile, che «in modo riluttante ma unanime» è stata rigettata dalle società della Premier come reso noto dall’organizzazione tramite comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 24 agosto.

La decisione è presa: in vista della tornata di gare di qualificazione a Qatar 2022, nessuno di questi club concederà i propri calciatori alle nazionali dei paesi a rischio.

Si tratta di un colpo micidiale alla regolarità della competizione, ma anche qualcosa di più. Perché un atto del genere mette definitivamente in discussione il ruolo delle nazionali, nel quadro di quella contrapposizione che nel dibattito anglofono è stata etichettata con lo slogan “club vs country” e tiene banco da almeno un quindicennio.

Al di là delle contingenze e delle emergenze, il grande rifiuto opposto dalla Premier si presenta come una svolta all’interno di un lungo processo di contrapposizione.

Infantino sulla difensiva

Di questo, più di chiunque altro, è consapevole Gianni Infantino, presidente della Fifa. Il Mondiale è sotto la sua responsabilità, la figuraccia sarebbe tutta in capo a lui. Per questo motivo il capo del calcio internazionale ha immediatamente scritto al premier inglese per chiedere il riconoscimento di un trattamento di favore per i calciatori impegnati nelle gare di qualificazione a Qatar 2022. Risposta pronta e negativa: nessun regime speciale, quarantena uguale per tutti.

Purtroppo per Infantino, i rovesci non finiscono qui. Perché velocemente il dissenso delle leghe professionistiche europee su questo tema è dilagato. Si è subito schierata la Liga spagnola guidata da Javier Tebas, che nel pomeriggio di venerdì 27 ha pure deciso di mobilitare l’artiglieria pesante e si è rivolta al Tribunale arbitrale dello sport (Tas) di Losanna per far sancire il diritto dei club a rifiutare la concessione dei calciatori alle nazionali. E dal tenore della richiesta si comprende che il Covid c’entra fino a un certo punto: si mira soprattutto ad arginare le pretese delle nazionali affiliate a Conmebol (la confederazione sudamericana).

Un segnale è giunto anche dalla Lega di Serie A, che con un comunicato del 25 agosto si è detta pronta a sostenere «in ogni sede» i club che decidessero di non concedere i propri calciatori alle nazionali dei paesi a rischio. E il 26 agosto è giunto il comunicato della Ligue de football professionnel francese, che ha contestato le posizioni Fifa usando argomenti molti simili a quelli della Liga spagnola.

La corsa alla rilegittimazione

Il massiccio ingresso in scena delle leghe è il dato più significativo di questo passaggio politico. Lo è se si guarda al momento specifico, ma ancor più se si compie una lettura sul medio-lungo periodo. Gli anni Dieci sono stati per le leghe professionistiche dei paesi calcisticamente più ricchi una fase storica di grande indebolimento.

Dopo essere state i veri soggetti forti del calcio nel periodo a cavallo fra i due secoli, le leghe professionistiche hanno vissuto uno spettacolare declino. Abituate al conflitto con le federazioni nazionali e le confederazioni internazionali, condotto in nome degli interessi dei club di cui sono rappresentanti, le leghe professionistiche si sono trovate al centro di un paradosso quando si è trattato di governare e temperare gli appetiti dei club da Superlega. Che a partire da un dato momento, ciascuno nel proprio paese, hanno spregiudicatamente condotto una politica dei due forni.

Formalmente essi facevano parte delle loro leghe nazionali, al cui interno godevano di protezione associativa pur lamentandosi di non ricevere risorse commisurate al loro statuto di maggiori produttori della ricchezza. Ma al tempo stesso lavoravano al progetto internazionale secessionista che avrebbe avuto come prime vittime proprio le leghe nazionali, impoverite dei loro club maggiori per rilievo storico e peso economico.

Dentro questo equivoco le leghe hanno rischiato di rimanere schiacciate. Ma poi il grottesco fallimento della Superlega si è trasformato per esse in un’insperata opportunità di rilancio.

I grandi club sono rientrati mestamente e con pretese molto ridimensionate, i medio-piccoli avevano già rinserrato i ranghi. E in condizioni del genere il bersaglio grosso è diventato la Fifa dello spregiudicato Infantino. Il presidente che ha voluto trasformare la confederazione internazionale da organizzazione-ombrello in attore imperiale che invade gli spazi di competenza altrui. Compresi quelli delle leghe nel rapporto coi club.

I sospetti che Infantino fosse ben al corrente del progetto di Superlega, inoltre, hanno rafforzato l’ostilità. E adesso è arrivato il momento della guerra aperta. Che a 15 mesi dal Mondiale il Qatar potrebbe avere effetti devastanti per il capo del calcio mondiale.

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