Non è possibile parlare di cacao, in Colombia, senza parlare di cocaina: lo sfruttamento della terra nel paese è storicamente legato all’industria della seconda pianta, che con il cacao condivide le necessità agronomiche di altitudine e temperatura, e occupa gli spazi idonei alla coltivazione in modo preferenziale.

Sin dagli anni Settanta la cocaina è la valuta non ufficiale usata nella guerra contro lo stato che è stata, e in parte è ancora, il conflitto armato colombiano: oltre ai cartelli malavitosi guidati dagli extraditables di Medellín e Cali, si sono finanziati con il narcotraffico gli eserciti guerriglieri ribelli Farc e Eln, investendo i proventi in forniture di armi dall’ex blocco sovietico, e le squadriglie paramilitari di estrema destra – Auc in testa – nate come eserciti privati dei narcos per contrastare i gruppi di guerriglia, poi divenute bande terroristiche autonome, o bacrim.

Nel 1994 il governo colombiano guidato da Ernesto Samper approva per la prima volta le fumigazioni delle piantagioni illegali con glifosato, dietro pressioni Usa. Nel 1999 entra in vigore il Plan Colombia, piano antidroga lanciato dalla presidenza Pastrana su impulso del governo Clinton, che propone di combinare interventi militari nelle aree di coltivazione con misure di supporto all’economia.

Colture alternative

La strategia principale per fornire mezzi di sostentamento alternativi ai contadini – privàti improvvisamente della principale fonte di reddito – diventa la sponsorizzazione di colture sostitutive, il cacao tra le altre: la transizione non risulta facile per i campesinos, che dalla coltivazione della coca riescono a ricavare premium inimmaginabili rispetto ai prezzi realizzati per le produzioni lecite.

Mi racconta queste cose, mentre beviamo una o più birre, Manlio Larotonda, 36 anni, torinese di nascita. Laureato in Scienze gastronomiche, è fondatore del Colaboratorio Sas; organizzazione di Bogotà che dal 2016 si occupa di cacao e cioccolato colombiano. Manlio e i suoi svolgono un’attività di identificazione e recupero di rare cultivar autoctone: per quanto quest’attività suggestiva già basterebbe per incantare l’immaginazione dei golosi di storytelling d’avventura, è solo parte di una missione più ampia.

La società aggrega produttori di cacao in transizione colturale, fornendo consulenze gratuite su come migliorare la qualità del prodotto e fungendo da interfaccia istituzionale e commerciale. Conta inoltre su un laboratorio interno per la trasformazione del cacao crudo in cioccolato, col marchio Cacao Disidente.

«In tutti questi anni», dice Manlio, «siamo arrivati nelle aree che il governo sgomberava militarmente, eradicando o fumigando le piantagioni. Quando viene eliminata la coca, che per molte famiglie è la fonte principale di sostentamento, il lavoro viene reindirizzato su coltivazioni alternative: il problema è che il cacao e il caffè, specialmente in ottica coloniale, vengono acquistati in massa senza alcun controllo sulla qualità; quindi pagati molto meno.

Fornire ai contadini gli strumenti perché possano produrre in autonomia un cacao especial in grado di realizzare prezzi più alti è offrire un’opportunità di giusto guadagno, sottraendosi tanto al controllo delle entità a capo del mercato della coca, quanto ai meccanismi oppressivi della compravendita internazionale del cioccolato».

Definire analiticamente cosa sia un cacao speciale a oggi è impossibile: non esiste un’organizzazione centrale che stabilisca parametri di classificazione univoci. Nei report della Icco – International cocoa association – il mercato del cacao è convenzionalmente distinto tra prodotto “ordinario” e Ffc, “fine and flavor cocoa”, senza che quest’ultima categoria venga definita con esattezza.

A partire dalla World Cocoa Conference tenuta nel 2015 a El Salvador, un gruppo di lavoro composto da associazioni di settore, accademici e privati ha iniziato a muoversi verso lo sviluppo di linee guida comuni che determinino cosa sia un “cacao specialty”; pubblicando una prima bozza del documento nel 2020.

Nonostante gli sforzi i lavori sono ancora in corso, e in mancanza di un regolamento che fissi criteri e scale di valutazione, a differenza di quanto accade con la Specialty coffee association e il suo sistema di categorizzazione basato su cupping e punteggi, valutare un cioccolato rimane un’attività chiara e confusa; dipendente da attributi sensoriali e etici intuibili solo a livello di implicito consenso comune.

Sapore especial

L’esperienza di degustazione del cioccolato Disidente è spiazzante, capace di mettere in crisi l’idea stessa che abbiamo del prodotto: profumi di fiori amazzonici e polpa di bacche annodano tappeti gustativi fitti, l’acidità è carezzevole e il finale culmina, anche nelle masse 100 per cento, in una dolcezza accogliente e prolungata di frutta che sfata al primo assaggio il brutto mito del fondente “amaro” (un gusto che non è tipico del cacao in sé, ma dovuto a difetti di lavorazione).

Chiedo a Manlio se un buon sapore basti a definire un cacao speciale. «Non si tratta solo di quanto sono buoni il cacao o la massa che ricavi», dice, «bisogna capire che il cibo è un agente politico, capace di migliorare in concreto le condizioni sociali e ambientali. Se si lavora bene con la terra e con la gente il resto viene da sé: bisogna costruire rapporti tra persone e con l’ambiente, prima che professionali».

Un’impresa comunitaria

Cabosse e tavolette non sono il tema del lavoro ma l’ambito di operazione, il tema sono le comunità: le relazioni individuali diventano una rete dotata di voce collettiva, capace di interfacciarsi con l’esterno. Il colaboratorio spinge i coltivatori che partecipano al progetto presenti nei vari departamentos a riunirsi in cooperative territoriali, sostituendo un modello solipsista con strutture collettive, e funge da punto di contatto tra queste, i progetti di cooperazione internazionale e pasticcieri, cioccolatieri, gelatieri.

Secondo Manlio, «il cooperativismo è essenziale: il sistema di produzione della coca è storicamente individualista, la raccolta viene svolta da singoli o da piccoli gruppi e conferita al gruppo di potere di turno per la raffinazione e la distribuzione. Con il cacao è diverso: per poter costruire vasche di fermentazione ed essiccatori, per ottenere finanziamenti e avere peso contrattuale è necessario consorziarsi, lavorare in gruppo. Aiutando gli individui a fare comunità attorno al cacao, stiamo assistendo non solo all’innalzamento della qualità media del prodotto, ma a una rimodulazione sociale completa». È una rivoluzione in cui le competenze si trasmettono in maniera orizzontale, a partire dallo know how tecnico del colaboratorio, che tramite assaggio della massa di cacao finita riesce a individuare le criticità produttive e implementare miglioramenti nel processo.

«A oggi siamo in grado, tramite un sistema di degustazione tecnica messo a punto da Santiago (Cadavid, sommelier e analista sensoriale di Disidente, ndr), di identificare con esattezza quali siano i problemi di lavorazione. Ad esempio riusciamo a riconoscere se ci siano degli errori di fermentazione o essiccazione, così come se siano dovuti a questioni tecnologiche o ambientali, e ad intervenire puntualmente per correggerli; coinvolgendo i produttori. Non possiamo limitarci a calare le soluzioni dall’alto: assaggiando insieme trasmettiamo le conoscenze che abbiamo maturato – e i contadini le fanno proprie, lavorando in autonomia. Sono operazioni di degustazione funzionale, fatte per migliorare il prodotto, non per stabilire se una massa “sa di fragola” o “sa di fiori”. Quelle sono cose che servono per raccontare il cioccolato finito al mercato. E a sé stessi per emozionarsi, ché alla fine il motore di tutto è quello, sempre».

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