È passato quasi un anno e mezzo da quando il secondo governo Conte ha consentito la regolarizzazione di colf, badanti e braccianti privi del permesso di soggiorno. Un’ottima idea realizzata purtroppo molto male.

In particolare, perseverando nell’errore, è stato incluso tra i requisiti per l’accoglimento della domanda l’irragionevole onere per il datore di lavoro (sì, proprio lui e non il lavoratore) di fornire al proprio dipendente un alloggio idoneo, facendosi certificare tale qualità dall’ufficio tecnico del comune di residenza.

Impegno illogico, perché una cosa – forse giusta – è richiedere la disponibilità di un alloggio idoneo per la chiamata di un lavoratore dall’estero, mentre non pare una grande idea richiedere particolari requisiti abitativi per l’alloggio di persone che, stando già da tempo in Italia senza permesso di soggiorno, non possono disporre d’altro, per sé stessi, che di un’abitazione di fortuna o comunque informale, sempre che non vengano accolti in casa dal loro datore di lavoro.

Non stupisce pertanto che questo requisito, di certo non intuitivo, sia rimasto sconosciuto a molti – sia datori di lavoro che lavoratori - convinti che al lavoratore bastasse avere un’abitazione dove riposarsi dopo le fatiche della giornata.

E in effetti perché questo non dovrebbe bastare? Nessun problema, comunque, per Teresa (da qui in avanti nomi di fantasia), un’anziana vedova, rimasta da sola nel suo bell’appartamento ben terrazzato di centoquaranta metri quadri, assistita da Joly, la sua badante indiana.

Storie di una regolarizzazione difficile

Il problema c’è, invece, per Giovanni, ex netturbino di 85 anni, che morirebbe a finire in una casa per anziani se fosse costretto a lasciare la sua casa piccola piccola (mancante di un solo metro quadro per avere l’agognata idoneità alloggiativa) dove abita con Pavel, il suo badate ucraino, il quale, fallita la regolarizzazione, tornerà a vivere in macchina oppure, semplicemente, continuerà a dormire e lavorare in nero da Giovanni, che in quel localino ci ha vissuto sin da piccolo con la madre.

Il problema c’è anche per Beautiful, giovane mamma sola, domestica a ore presso due diversi datori di lavoro che hanno presentato una domanda congiunta per metterla in regola. Beautiful vive come ospite in una casa-famiglia, dove non ha un appartamento proprio e dunque nemmeno la possibilità di certificare l’idoneità alloggiativa, non riferibile a una stanza singola.

Indubbiamente avere preteso da persone come Beautiful, irregolarmente soggiornanti, di disporre di un contratto di locazione che consenta loro di richiedere la certificazione dell’idoneità alloggiativa è stato un grave errore. Ma non l’unico.

Infatti, per la prima volta nella storia delle regolarizzazioni, il governo non si è rivolto solo ai lavoratori già occupati in nero o almeno assunti al momento stesso della domanda di regolarizzazione, ma ha invece consentito di richiedere la regolarizzazione per un lavoratore non ancora assunto, rinviando il contratto di lavoro sino al giorno della convocazione presso le prefetture per la firma del contratto di soggiorno, che per molti lavoratori arriverà a 2022 inoltrato, se non nel 2023.

Un bel regalo per alcuni datori di lavoro, che alla fine avranno risparmiato molti mesi, se non anni, di contributi per lavoratori in realtà assunti in nero già prima della domanda di regolarizzazione e mantenuti in nero anche in seguito.

Purtroppo questo comporta un grave danno per i lavoratori, inclusa Ivette da tempo lavorante h24 a 500 euro al mese presso Maria, un’anziana signora gentile ma molto confusa. Il figlio di Maria presenta l’istanza di regolarizzazione a nome della madre il 27 luglio 2020.

Il versamento del contributo di 500 euro però viene fatto da Ivette (“perché non è mica giusto che la tua regolarizzazione la paghiamo noi”). Ma Ivette è ben contenta di pagare, felice per la fine imminente della sua condizione di persona irregolarmente soggiornante. Disgraziatamente undici mesi dopo – siamo a fine giugno 2021 - l’anziana viene ricoverata in ospedale per esserne trasferita venti giorni dopo in una Rsa (residenza sanitaria assistita). A questo punto il figlio non ha più bisogno di Ivette e le dà il benservito, dicendole che non può più (o meglio, non vuole più) regolarizzarla. Con l’occasione Ivette scopre anche che dopo la domanda di regolarizzazione non è mai stata inviata alcuna comunicazione di avvio del rapporto di lavoro all’Inps.

Lali invece è una colf e baby-sitter georgiana, anche lei convivente con i datori di lavoro (una famiglia con tre bambini) i quali inoltrano la domanda di regolarizzazione già a giugno 2020 e avviano anche la comunicazione di assunzione all’Inps. Dopo la domanda di regolarizzazione Lali acconsente a qualsiasi richiesta dei suoi datori di lavoro, dai quali ormai dipende il suo futuro in Italia. Così non di rado si trova a lavorare anche oltre la mezzanotte, dopo avere servito gli ospiti a cena e pulito salotto e cucina, benché nella comunicazione all’Inps sia indicato un orario di lavoro di 25 ore a settimana e non vi sia cenno al fatto dell’ospitalità in casa.

All’inizio di luglio 2021 i datori di lavoro le annunciano però il loro trasferimento all’estero per motivi di lavoro e le propongono di spostarsi a casa di alcuni amici che la prenderebbero volentieri a servizio come colf. Lali a questo punto si preoccupa e chiede di avere copia dei documenti della regolarizzazione, inclusa la richiesta del certificato di idoneità alloggiativa.

Ma questo infastidisce non poco gli ormai ex datori di lavoro, secondo i quali quello dell’alloggio non è un problema loro ma, da che mondo è mondo, del lavoratore stesso. Poco importa, quindi, che Lali fosse alloggiata proprio a casa loro. Infatti ora che non lo è più, Lali non sa cosa fare: non può stipulare un contratto di affitto perché ancora non ha il permesso di soggiorno, quindi non potrà nemmeno richiedere il certificato di idoneità alloggiativa; e tanto basta per rifiutarle la regolarizzazione.

Come Beautiful, Ivette e Lali, molte delle 207mila colf e badanti “in via di regolarizzazione” attendono il frantumarsi delle loro illusioni di serenità e di legalità a causa di regole di cui l’attuale governo non porta responsabilità, se non quella, essa pure grave, di non avervi ancora posto rimedio. Eppure non sarebbe complicato.

Come intervenire

Già nel 2013 un altro governo rimediò con una semplice norma alle notevoli difficoltà applicative accumulatesi nelle procedure di regolarizzazione disposte l’anno prima dal precedente esecutivo. Bastò scrivere che nei casi in cui la dichiarazione di emersione dovesse essere rigettata “per cause imputabili esclusivamente al datore di lavoro”, al lavoratore venisse rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione (art.9, comma.10, d.l. n. 76/2013).

A quel punto le prefetture smisero di rifiutare la regolarizzazione a quelle badanti che mancavano di un metro quadro sotto i piedi quando, di giorno e a volte anche di notte, accudivano le loro “nonne” italiane, concentrandosi finalmente solo sull’essenziale, cioè sul requisito di autenticità del rapporto di lavoro. Il risultato? Il 70 per cento delle domande di regolarizzazione andò a buon fine, contro “solo” il 30 per cento di rifiuti, che altrimenti sarebbero stati molti ma molti di più.

Ciò che con successo è stato fatto in passato, forse potrebbe essere fatto anche oggi, in nome della “ripresa e resilienza”. Avremmo così, finalmente, le nostre badanti felici, con la tessera sanitaria e con il green-pass. Molti datori di lavoro onesti riuscirebbero finalmente a regolarizzare “prima del mai” il loro collaboratore familiare, senza esserne più impediti da assurde richieste adatte solo a complicare la vita a tutti.

E anche l’Inps potrebbe finalmente riscuotere i contributi dovuti, considerando che quelli nel frattempo perduti, ormai a sedici mesi di distanza dall’inizio delle procedure, superano già del doppio i 500 euro versati da ciascun richiedente al momento della domanda di regolarizzazione.

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