Finalmente, il numero dei casi e dei decessi provocati dalla variante Omicron 5 del Sars-CoV-2 sta precipitando, e ormai anche questa ondata epidemica – la quinta in cinque anni – sta volgendo al termine in quasi tutti i paesi del mondo. Ma dopo due anni e mezzo di continue oscillazioni tra incrementi repentini e lenti cali delle infezioni, noi tutti ci poniamo le stesse domande: che cosa succederà adesso? Arriverà una nuova ondata? Nascerà una nuova variante del virus? Sarà più mite o più aggressiva? i vaccini funzioneranno? Cerchiamo di rispondere a un interrogativo alla volta.

Che cosa succederà in futuro col Covid non lo sappiamo, ma di una cosa possiamo essere certi: prima o poi una nuova variante arriverà, per effetto della probabilità. Ogni volta che il coronavirus si replica per generare due virus figli deve anche duplicare il suo genoma, che è costituito da un singolo filamento di Rna, ma in questo processo di duplicazione possono avvenire degli errori di copiatura che generano mutazioni nell’Rna e quindi nelle proteine del virus, che dall’Rna sono codificate.

Più alto è il numero dei virus circolanti – ogni individuo infetto ospita da 1 a 100 miliardi di copie del virus – e più alta è la probabilità che abbia origine una nuova variante. In questo momento il virus continua a circolare numeroso perché milioni e milioni sono le persone infette sul pianeta, specie nei paesi dove il tasso di vaccinazione è più basso come l’India, il Sudafrica, il Brasile eccetera.

Perciò, è inevitabile che nascano nuove varianti del coronavirus, probabilmente in quelle aree dove il virus sta contagiando un numero maggiore di individui. Certe mutazioni sono positive, cioè migliorano la capacità di diffusione e la sopravvivenza del virus, altre sono negative, e le peggiorano. I virus con mutazioni che ne facilitano la sopravvivenza e la diffusione si propagano; gli altri si perdono e scompaiono.

Quando nascerà una nuova variante?

Fino ad ora le nuove varianti del coronavirus sono sorte più o meno ogni sei mesi, ed è probabile che accada di nuovo dopo un periodo di tempo simile. Visto che Omicron 5 è apparsa in tarda primavera, una nuova variante potrebbe iniziare a diffondersi verso l’inizio dell’inverno. Ma non si può escludere che stavolta occorra un tempo più lungo perché essa si manifesti.

Qualcuno aveva ipotizzato che il coronavirus fosse stagionale, e che si comportasse come il virus dell’influenza o gli altri virus respiratori, con un alto numero di infezioni in inverno e un basso numero d’estate. In effetti, durante la stagione invernale si verificano condizioni che facilitano il diffondersi dei virus respiratori – le temperature scendono, l’aria è più fredda e noi tutti tendiamo a riunirci al chiuso. Ma il coronavirus non è il virus dell’influenza.

Come abbiamo visto, questa ultima ondata di Omicron 5 è esplosa nella stagione calda, tra la primavera e l’estate, epoca in cui la diffusione del virus dovrebbe essere minima. Inoltre, nei paesi tropicali e subtropicali, che tra l’altro sono quelli dove più alto è il numero di persone infette e il virus circola maggiormente, non c’è una grande differenza tra una stagione e l’altra, e il clima continua a essere caldo e umido per tutto l’anno: non è un caso che le ultime varianti siano nate in Brasile (Beta), in India (Delta) e in Sudafrica (Omicron). Quindi, è più probabile che una nuova variante nasca in un paese tropicale o subtropicale verso dicembre, ma non si può escludere che possa sorgere altrove.

Come sarà la nuova variante?

Quali caratteristiche avrà? Sarà più o meno aggressiva delle precedenti? Non possiamo saperlo perché ogni volta che è mutato il Sars-CoV-2 lo ha fatto in maniera inaspettata. All’inizio della pandemia, le prime varianti – Wuhan 1, Alfa e Delta – erano molto contagiose e aggressive, e provocavano un altissimo numero di morti. A quell’epoca pochissime persone erano vaccinate o avevano sviluppato l’immunità, e perciò il fattore contagiosità favoriva la diffusione del virus.

In altre parole, i virus più contagiosi avevano un vantaggio evolutivo e si diffondevano più facilmente. Adesso, però, molte persone sono vaccinate o hanno avuto infezioni precedenti, e hanno sviluppato un’immunità più o meno efficace: in queste condizioni, hanno un vantaggio evolutivo i virus che, grazie alle mutazioni, hanno acquisito la capacità di evadere al sistema immunitario.

Le diverse varianti di Omicron, ad esempio, sono dotate di una spiccata immunoevasività, che è andata progressivamente aumentando dalla 1 alla 5, e possono infettare praticamente chiunque, persino chi ha sviluppato un’immunità grazie alla vaccinazione o a un’infezione precedente, ma per fortuna in genere provocano una malattia più lieve.

In sostanza, mentre le varianti precedenti del coronavirus provocavano da uno a due decessi ogni 100 casi (un indice denominato Case Fatality Rate, ovvero indice di letalità), ora Omicron ne causa dieci volte meno, cioè circa 0,1 su 100. Tuttavia, visto che il numero degli individui infettato da Omicron è altissimo, rimane alto sia quello dei ricoverati in ospedale sia quello dei morti, anche se sono molti meno che nelle ondate precedenti. Se Omicron fa in proporzione molte meno vittime, il merito è tutto dei vaccini.

Infatti quelli attualmente in circolazione, benché siano stati prodotti sulla base della proteina spike della variante Wuhan 1 del coronavirus, quella originaria comparsa in Cina alla fine del 2019, continuano a proteggerci in maniera efficace dalla malattia grave provocata da Omicron e dalla morte e, anche se in misura inferiore, dal contagio. Perché questo accade?

L’efficacia dei vaccini

Per capirlo bisogna spiegare come funziona la risposta immunitaria del nostro organismo contro il virus.

Il coronavirus è formato da un involucro esterno denominato capside, che contiene al suo interno il patrimonio genetico del virus, costituito da Rna. Il capside del virus è formato da tante molecole di proteine, ognuna delle quali è costituita da una lunga catena di mattoncini denominati aminoacidi, avvolta su sé stessa.

La proteina più importante del coronavirus è la proteina spike – cioè “spina”. Si chiama così perché costituisce le minuscole spine che sporgono dal capside del virus, dandole la forma di una corona. La spike svolge un ruolo fondamentale: è la proteina che il virus utilizza per attaccarsi ad altre speciali proteine – chiamate Ace2 – che si trovano sulla membrana di certe nostre cellule, come quelle dell’epitelio delle nostre vie aeree, dei nostri alveoli polmonari e dei nostri vasi sanguigni, per poi infettarle.

Le proteine si attaccano l’una all’altra come una chiave penetra in una serratura. In questo caso la struttura della proteina spike del virus, determinata dalla sua sequenza di aminoacidi, la rende una chiave che penetra all’interno della serratura costituita dalla proteina Ace2 delle nostre cellule. Più perfettamente la chiave-spike penetra nella serratura-Ace2, meglio il coronavirus si attacca alle nostre cellule, e maggiore è la contagiosità della variante del coronavirus.

Alla sua comparsa, la variante Omicron 1 mostrava una cinquantina di mutazioni, delle quali 34 riguardavano la proteina spike, e le successive subvarianti Omicron 2, 3, 4 e 5 hanno progressivamente accumulato nuove mutazioni che le hanno rese via via più affini al nostro recettore Ace2, e perciò più contagiose. Eric Topol, professore di Medicina molecolare del prestigioso Scripps Research Institute di La Jolla, in California, sostiene che Omicron 5 «è la forma peggiore del virus» vista finora.

Ma spike è anche la proteina più “antigenica” del coronavirus, ovvero il suo antigene più potente, cioè quello contro cui si dirige la risposta immunitaria più efficace del nostro organismo.

Quando il coronavirus penetra all’interno del nostro organismo, oppure quando ci viene iniettato un vaccino che contenga la proteina spike del virus, essi vengono riconosciuti come “estranei”, e ciò scatena la nostra risposta immunitaria.

Il coronavirus attiva speciali cellule immunitarie denominate linfociti B. Ogni linfocita B attivato inizia a moltiplicarsi, generando un clone di linfociti B che producono e secernono uno e un solo tipo di anticorpi contro una porzione specifica di una delle proteine del virus.

Però, non tutti gli anticorpi hanno una efficacia identica nel combattere un virus. Nel caso del coronavirus, gli anticorpi più efficaci sono quelli diretti contro la proteina spike perché colpiscono una sua molecola fondamentale, quella che lui utilizza per attaccarsi alle nostre cellule.

Gli anticorpi servono a neutralizzare il virus finché esso nuota o circola nel sangue, all’esterno delle cellule: una volta che le ha infettate ed è penetrato al loro interno, gli anticorpi sono inutili perché non riescono più raggiungerlo. E a questo punto, entrano in campo i linfociti T.

I linfociti T

Quando Il coronavirus, penetrato nel nostro organismo, infetta le nostre cellule, poi ne utilizza il macchinario molecolare per produrre tante copie di sé stesso. Durante questo processo, alcune delle proteine del virus prodotte dalle nostre cellule infettate vengono “esposte” sulla superficie esterna delle cellule stesse.

I linfociti T killer (il nome spiega la loro funzione) riconoscono queste proteine del virus “presentate” sulla superficie esterna delle cellule infettate e le distruggono, uccidendo in questo modo anche le copie del virus contenute dentro di esse. I linfociti T che imparano a riconoscere la proteina spike del coronavirus sono quelli che meglio riescono a uccidere il virus.

In modo simile, quando ci viene iniettato un vaccino, per qualche ora esso induce certe nostre cellule a produrre la proteina spike del virus, che viene poi esposta sulla loro membrana esterna: i linfociti T killer la riconoscono e imparano a distruggere le cellule che la esprimono.

Ma ci sono alcuni problemi. Quando il virus penetra nel nostro organismo, i linfociti B e i linfociti T vengono attivati in maniera potente: gli anticorpi secreti dai linfociti B inattivano il virus mentre circola nel nostro corpo, e i linfociti T uccidono le cellule da esso infettate.

A poco a poco, il virus viene combattuto e ucciso, fino a scomparire del tutto dal nostro corpo, e a quel punto è inutile mantenere tutti quei linfociti B e T attivi. I linfociti B e T a poco a poco “si spengono” – i primi smettono di produrre anticorpi, i cui livelli diminuiscono nel sangue, i secondi smettono di distruggere cellule – e iniziano a morire.

Restano solo poche cellule B e T cosiddette “di memoria”, quiescenti, che possono sopravvivere per mesi, anni o perfino decenni, e che sono pronte a riattivarsi in futuro, nel caso che quello stesso virus o la proteina del virus contenuta nel vaccino che hanno imparato a riconoscere penetri di nuovo all’interno del nostro corpo. Però, se il virus o il vaccino non si ripresenta all’interno del nostro corpo anche le cellule di memoria cominceranno a morire e la nostra immunità declinerà.

La quarta dose

Purtroppo, i vaccini contro il Sars-CoV-2 inducono un’immunità che comincia a svanire già dopo pochi mesi, e gli scienziati non sanno ancora quanto a lungo le cellule B e T di memoria sopravvivano. Per questo, circa sei mesi dopo la seconda dose siamo costretti a farne una terza, che serve a riattivare i linfociti B e T e a generare nuove cellule di memoria che ristabiliscono una piena protezione immunitaria e la prolungano – ma quanto a lungo ancora non si sa.

Con Omicron le cose vanno anche peggio. Dato che i vaccini ora in commercio sono stati prodotti sulla base della proteina spike della variante Wuhan 1 del coronavirus, i nostri linfociti B hanno imparato a produrre anticorpi che sono perfetti per inattivare la proteina spike di Wuhan 1, ma che inattivano con minore efficienza la proteina spike di Omicron 5, che è mutata e quindi ha una struttura diversa. E i linfociti T killer che hanno imparato a riconoscere la proteina spike del virus Wuhan 1 dei vaccini riescono a riconoscere con maggior difficoltà le nostre cellule infettate dal virus che presentano sulla loro membrana la proteina spike di Omicron 5.

Tuttavia i vaccini riescono a proteggerci in maniera sufficiente dalla malattia provocata da Omicron 5, e dalla morte, pur se in misura inferiore rispetto a prima, mentre hanno una scarsa efficacia nel proteggerci dal contagio: per questo molti individui, anche quelli vaccinati con tre dosi o che hanno avuto infezioni precedenti, si ammalano lo stesso ma quasi sempre con sintomi lievi.

Una quarta dose di vaccino potrebbe fare aumentare il livello dei linfociti B circolanti e quindi degli anticorpi contro la proteina spike, e dei linfociti T killer contro il virus: la risposta immunitaria contro Omicron 5 tuttavia acquisirebbe un maggiore vigore, ritornando quasi ai livelli originari. Per questo, sarebbe opportuno che tutti, e soprattutto gli individui più a rischio come gli anziani, si inoculassero la quarta dose.

I nuovi vaccini

C’è un’altra possibilità. Potremmo tutti aspettare e inocularci i nuovi vaccini aggiornati che probabilmente saranno disponibili verso la fine dell’anno. Nelle prossime settimane, completata la fase di sperimentazione clinica, l’Ema – l’agenzia di sorveglianza dei farmaci della Unione europea – dovrebbe approvare i cosiddetti vaccini bivalenti, cioè in grado di provocare una reazione immunitaria contro il virus originale, il cosiddetto Wuhan 1, e anche contro la subvariante Omicron 1. Poi, nel giro di poco tempo, dovrebbero esserci approvati anche i vaccini contro Wuhan 1 e Omicron 4 e 5.

Il 15 agosto l’autorità di regolamentazione dei medicinali del Regno Unito (MHRA) è stata la prima al mondo ad approvare l’uso di un vaccino bivalente contro Wuhan 1 e Omicron 1 prodotto dalla casa farmaceutica Moderna, la quale ha assicurato che il medicinale funzionerà anche contro le subvarianti 4 e 5.

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