«È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» dal Vangelo secondo Matteo (19,24). Dalla cronaca delle ormai prossime elezioni del CONI, invece: «È più facile che una donna, ex atleta, con esperienza dirigenziale di alto livello debutti in politica e diventi sindaca di Genova, piuttosto che presidente del Comitato olimpico nazionale italiano».

Se il buon senso avesse prevalso, Silvia Salis avrebbe potuto infrangere quel soffitto di cristallo (uno dei rari ancora rimasti): lanciatrice di vertice, consigliera nazionale nella federazione di atletica, giovane vicepresidente vicaria del Coni nel quadriennio ancora in corso, rappresentava il profilo perfetto per un endorsement all’insegna del cambiamento e di quanto avvenuto pochi mesi fa al CIO (Comitato olimpico internazionale) con l’elezione di Kirsty Coventry grazie al sostegno del presidente uscente Thomas Bach.

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Invece, a sorpresa, si è candidata come prima cittadina del capoluogo ligure: non sapremo mai se lo ha fatto perché ha intravisto nella politica un futuro più sicuro di quanto intravvedeva nella politica sportiva. È però presumibile che avrebbe preferito essere protagonista assoluta nel suo ambiente, quello che finora ha catalizzato il suo interesse, in cui è cresciuta, ha maturato competenze e consapevolezza di portare un valore aggiunto. Invece ha cambiato direzione verso un orizzonte nuovo e ha vinto.

Un’occasione fallita

A perdere ancora è invece il Coni che fallisce un’altra occasione per fare un passo verso la modernità lasciando giocare la partita per la presidenza con il solito schema: otto candidati alla posizione di vertice, tutti uomini, non proprio giovani. A dimostrazione che alla guida dello sport possono ambire solo coloro che nei secoli dei secoli (amen) hanno scolpito il loro nome nella roccia della roccaforte inespugnabile attraverso la goccia dell’appartenenza. Dell’appartenenza a cosa?

Era il 18 luglio 2018 quando una notizia avrebbe dovuto far tremare le fondamenta del mondo sportivo italiano e invece passò quasi in sordina: Enrico Cataldi, ex generale dei Carabinieri in pensione dopo una vita trascorsa a combattere il terrorismo, chiamato alla procura del Coni dall’allora neoeletto presidente Giovanni Malagò per guidare una storica riforma della giustizia sportiva, rimetteva l’incarico.

La motivazione, per niente sibillina, parlava di lobby potente all’interno del Coni, un muro di gomma che si oppone a ogni cambiamento: per esplicitarla ulteriormente arrivò ad affermare che, nonostante una vita passata a cercare di fare giustizia e risolvere casi complicatissimi, doveva prendere atto che nello sport l’impresa superava le sue forze.

Piccola premessa per ricordare un fatto eclatante e sottolineare che le modalità di voto per i vertici del Coni coinvolgono solo i grandi elettori, 81 in totale, tra cui i presidenti delle 50 federazioni nazionali, 15 rappresentanti di atleti e tecnici, tre rappresentanti delle discipline sportive associate (DSA), cinque degli enti di promozione sportiva (EPS), uno delle associazioni benemerite, tre dei comitati territoriali, i tre membri CIO italiani e il presidente del Coni uscente.

Un corpo elettorale ristretto di un sistema chiuso, dove il potere di cambiare è solamente nelle mani di chi già appartiene al sistema.

L’età e i mandati

Nei 111 anni di storia del Comitato olimpico italiano, dal 1914 della fondazione a oggi, i presidenti che si sono succeduti sono stati 20 comprendendo i due commissari del periodo bellico. Giulio Onesti è rimasto in carica per 22 anni (dal 1946 al 1978).

Nella classifica dei più longevi segue Gianni Petrucci con 14 anni (dal 1999 al 2013). Al terzo posto Giovanni Malagò con 12 anni (dal 2013 al 2025), costretto ora a non ricandidarsi dalla subentrata legge sui mandati, che ha posto il limite massimo di tre per il Coni (in quanto ente pubblico) mentre resta ad libitum per le federazioni in quanto enti privati (sebbene su quanto siano privati sarebbero necessari molti distinguo).

Perciò tra le varie bizzarrie del sistema, tra i candidati alla presidenza del Coni ci sarà Luciano Bonfiglio, nei mesi scorsi rieletto per la sesta volta consecutiva al vertice della federazione nazionale canoa e kayak (che dirige dal 2005) e che potrà dunque votare per sé stesso. A contendergli la vittoria Luca Pancalli, da 25 anni presidente della federazione sport disabili divenuta nel tempo Cip (Comitato paralimpico italiano) esponente gradito, pare, al governo.

Tra i due però nessuno pareva avere i numeri per sentirsi al sicuro e perciò è nata l’idea di ricorrere a un pacificatore che unisse i consensi, qualcuno che andasse bene a tutti e che sarebbe sceso in campo solo nella certezza della vittoria. E così il candidato super partes ad ambire a numero 1 dello sport italiano sarà Franco Carraro, classe 1939, già presidente del Coni dal 1978 al 1987, già ministro ai tempi di Andreotti, già sindaco di Roma, già presidente della Federcalcio, già membro CIO, già, già, già…

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Lui i suoi tre mandati al Coni li ha avuti, sebbene prima che la legge entrasse in vigore. Merita attenzione anche un dettaglio anagrafico dei tre candidati favoriti: tra Carraro, Bonfiglio e Pancalli, l’età media è di 71 anni. Da segnalare nella rosa ma nel ruolo di outsider, il bi-olimpionico dell’equitazione Mauro Checcoli, 82 anni, ambasciatore dell’olimpismo, e Carlo Iannelli, avvocato, papà di Giovanni, giovane ciclista morto a 144 metri dal traguardo (contro un muretto non protetto) senza pace per il lutto e per l’indifferenza della giustizia sportiva: lui sì che con Cataldi avrebbe lavorato volentieri.

Mai una donna

Ovviamente la cronistoria della presidenza del comitato olimpico italiano è tutta declinata al maschile: nessuna donna tra i 20 al vertice e mai nessuna ci ha nemmeno provato. L’eccezione che conferma la regola è la candidatura di denuncia e protesta di chi vi scrive, nella scorsa tornata elettorale (2021).

«La vecchiaia per noi è ricchezza, è saggezza» dice Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, Associazione nazionale atlete «ma quando un sistema come quello politico sportivo propone alla guida, da 111 anni, solo uomini tendenzialmente anziani che dovrebbero essere fieri di lasciare il posto ai giovani e alle giovani, senza mai fronteggiare davvero le imbarazzanti disparità di genere e generazionali, vuol dire che il sistema è malato, di potere, cecità e narcisismo. Quando una struttura manageriale (peraltro pubblica) esclude di fatto chi rappresenta futuro e diversità lasciando loro solo le briciole, siamo di fronte a un sistema patriarcale e maschilista cronico. Anzi, da medaglia».

Nel nostro Paese lo sport perde per strada i pezzi fondamentali della partecipazione, del diritto di fare agonismo senza dover essere campioni, dei talenti bruciati dall’iperspecializzazione precoce ma il modello gestionale guarda solo alla sua autoconservazione. Il CIO finalmente ha cercato di dare il buon esempio; il Coni almeno su questo è coerente e non ci prova nemmeno. 

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