Non è un paese per giovani, e vai con la solita storia. Ma ci stiamo sbagliando e le prove si trovano a Ravenna. Dentro a un palazzetto non lontano dal cuore di una città antica, al tempo stesso splendente e nebbiosa. È il quartier generale della Consar, la squadra di A2 che vuole riprendersi il mondo del volley. Un passo per volta, non c’è fretta.

Non ne ha il presidente Matteo Rossi, uomo pacato, solido, figlio della working class romagnola (è di Forlì), che preferisce occuparsi del presente più che del magma futuro: «Vogliamo lavorare con i giovani, il focus è quello. È uno dei nostri princìpi cardine. Ma non è la normalità, non in tutto lo sport. Perché con i giovani ci vuole tempo e i rischi sono alti».

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Per ora le cose vanno benone. L’anno scorso la Consar aveva chiuso al quarto posto in regular season e solo un quinto set sciagurato non le aveva permesso di accedere alla finale play-off. Ha disputato una finale di Coppa Italia e vinto la Junior League (non succedeva da 29 anni). Di giovani ce n’erano tanti anche un anno fa: Alessandro Bovolenta, figlio d’arte, e poi Orioli e Mancini, tutti cresciuti insieme fin dall’Under 14. Gli stessi che ora luccicano sui grandi palcoscenici. La Consar fa dei suoi ragazzi un vanto. «Siamo circa trecento tesserati – racconta ancora Rossi –, duecentocinquanta fino all’Under 19, che per noi è una vera seconda squadra. Fa la serie C, non è uno scherzo».

Ma tra poco ci saranno i play-off di A2 e in casa Consar soffiano venti di gloria. La rivoluzione estiva non ha cambiato niente (sono rimasti in 4 dall’anno scorso): ci sono esordienti come Manuel Zlatanov, il più giovane del gruppo (è un 2008), e il libero Giovanni Pascucci.

Tutti e due figli d’arte: è che la pallavolo scorre nel dna. Nessuno lo ammette, evviva la scaramanzia, ma il pensiero di una promozione è una scintilla negli occhi di tutti.

La gloria del passato

D’altra parte, Ravenna ha preso dalla storia il vizio di sentirsi caput mundi. Un vizio pericoloso: essere stati grandi condanna alla nostalgia. Negli anni Novanta per giocare a pallavolo si trasferivano qui da tutto il mondo. Si vinceva, si veleggiava sulle copertine patinate. E i soldi facevano il resto. I più grandi li aveva portati Raul Gardini, un corsaro, un visionario, l’imprenditore che dagli Usa importò sua beltà Karch Kiraly e lo schiacciatore Steve Timmons. Quella squadra arrivò a vincere tutto: scudetto, Coppa Italia, Mondiale per club, Supercoppa europea e Coppa dei Campioni.

Ma di quei fasti, di quella Ravenna, culla di una pallavolo che non c’è più (la femminile detiene ancora il record di undici scudetti consecutivi targati Teodora), è rimasto il ricordo. «Penso al mio presente – dice Rossi –, diventa difficile affrontare il tema di quegli anni». E del resto il mondo è cambiato.

Le crisi, da quelle finanziarie alle pandemiche, si sono trascinate dietro tutto. E oggi la parola d’ordine è accortezza. «I conti devono tornare. Bisogna stare attenti alle cose di tutti i giorni. Ho notato che lo sport è un sistema dove i numeri vengono guardati solo in certi momenti senza avere la percezione di quello che si sta facendo».

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Rossi si definisce un uomo di numeri, un artigiano, che insieme ai due fratelli porta avanti l’azienda di trasporti aperta dal padre. «Mi alzo la mattina, vado a lavorare al meglio e cerco di portare a casa la giornata per la mia famiglia. È quello che mi hanno insegnato e che trasmetto ai miei figli». Valori, questi, trasferiti nel business pallavolo. E nello sport, dice ancora Rossi, «vale ancora di più perché non si produce qualcosa».

Le emozioni sono belle, ma i conti sono un altro discorso. Il nuovo corso del club è cominciato due anni fa, dopo la retrocessione, quando il Consar, un consorzio di 400 imprenditori del settore trasporti, ha deciso di acquisire l’89% delle quote diventando l’azionista di maggioranza. «Da lì la volontà di capire come viene gestito il tutto. Non è: io ti do la sponsorizzazione e poi ti arrangi a gestirla. No, nel momento in cui diventi proprietario vuoi capire come funziona tutto».

Il coach

Si è tornati a giocare al Pala De André, uno dei simboli dell’impero che fu. Niente pienone (per ora gli abbonati sono 400, 1200 gli spettatori a match), ma l’attaccamento è totale, e si sente. È lo stesso che traspare dalla voce di coach Antonio Valentini, giovane anche lui, 35 anni appena, calabrese, un innovatore.

«Questo non è solo un posto dove lavoriamo – dice –, ma c’è tanta umanità. Quando mi ha chiamato Bonitta, che poi è andato ad allenare negli States, ho detto subito sì. Non ti richiamo Marco, gli ho detto, non ne parliamo: va bene e basta. Per me Ravenna è destino. Mi ricordo anche la prima volta che ci sono stato: facevo la seconda media, eravamo in zona teatro Alighieri, e io volevo andare a vedere il palazzetto».

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Cita Bielsa, nomina Messina e Guardiola («Sono un grande appassionato di allenatori»), ha lavorato con Blengini in nazionale, con Bonitta, con De Giorgi, con molti altri big. La madre insegna letteratura inglese, il padre è un ingegnere in pensione. A Ravenna era già stato da secondo, ma questa è un’avventura diversa. La vita del coach, dice, «è totalizzante».

Usa scienza e puntiglio, e dosi di filosofia, psicologia e intelligenza. «Noi non abbiamo una stella, noi siamo un insieme. Nessuno di noi è un genio, né giocatori, né allenatore, né star. Siamo persone normali, dobbiamo andare insieme a provare a raggiungere un obiettivo insieme».

Anche se è generazioni anni luce indietro rispetto ai suoi ragazzi («Quando nomino MySpace mi guardano allucinati»), Valentini è il collante di tutto. Lui, il suo staff (giovane pure quello), e un capitano come Riccardo Goi, classe 1992, il più vecchio del gruppo.

La prima volta che arrivò qui aveva 19 anni. È tornato nel 2021, e in totale fanno dieci anni. «Nel mondo della pallavolo – dice Goi – sappiamo cosa è stata Ravenna. La cosa importante è che i ragazzi che arrivano si rendano conto di dove sono e del posto in cui si trovano. Sono fortunati, ce lo ricordiamo spesso».

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Lo schiacciatore sedicenne

Sono educati, tenaci, concentrati sul loro percorso, questi ragazzi by Consar. Anche Zlatanov, 16 anni, schiacciatore, che aveva già fatto l’esordio in Serie A con Piacenza. Ravenna è posto perfetto per lui. «È la mia prima esperienza fuori casa. Vivo con un altro compagno di squadra.

Le difficoltà sono le stesse di tutti senza genitori: la lavatrice, la spesa, l’arrangiarsi. Ma stiamo vivendo una stagione molto bella, c’è un’aria molto inclusiva, alla mano. Però è anche molto difficile, il livello è alto».

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Frequenta l’Itis, studia informatica. Ravenna è la sua isola («Prendo la bici, qui puoi andare dappertutto»), la pallavolo è il suo domani. Alla sua età Manuel non può vivere di ricordi. Nemmeno lui, Zlatanov jr, figlio di Hristo, uno di quelli che fece grande la Ravenna dei Novanta. Anche suo nonno Dimitar giocava a pallavolo, vinse due argenti alle Olimpiadi con la Bulgaria.

Altre storie, che non sono la sua. «Loro hanno fatto la loro carriera. Vivo tutto con tranquillità. Sono diverso da loro, hanno fatto delle cose che io non farò e lo stesso succederà a me. Voglio prendere la mia strada». Ravenna sembra proprio il posto giusto.

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