Chiara e Christine sono mie amiche. A Chiara e Christine voglio bene. Chiara e Christine si amano, sono sposate e hanno un figlio, Arturo – cinque mesi e due grandi occhi grigio-verdi, curiosi della vita e del mondo. La storia di Arturo e delle sue mamme ha impiegato molto tempo prima di arrivare a “e vissero felici e contenti” perché il paese di Arturo – non l’isola raccontata nel romanzo di Elsa Morante che Chiara e Christine amano molto, ma la penisola italiana nel ventunesimo secolo – non ha una legge che riconosca a due mamme o a due papà gli stessi diritti e doveri dei genitori eterosessuali. «Io non chiedo il diritto di diventare genitore», mi dice Chiara «io chiedo che lo stato italiano dichiari che è mio dovere occuparmi di mio figlio. Se un giorno la mia relazione con Christine dovesse finire, per esempio, io voglio dover pagare per il suo mantenimento. Voglio che Arturo abbia gli stessi diritti degli altri bambini».

America-Italia

Chiara Soldatini e Christine Herin si sono conosciute nel 2016 durante un viaggio di lavoro a Washington. Christine, in arte Dolche, è cantautrice e musicista. Chiara, che a Roma lavorava come fotografa, è diventata sua manager e insieme, l’anno passato, hanno prodotto il sesto album di Dolche, Exotic diorama, registrato in gran parte negli Stati Uniti. Nel 2017, un anno dopo essersi incontrate, Chiara e Christine si sono sposate a New York: «volevamo sposarci, volevamo un matrimonio», mi raccontano «a New York in 48 ore e con 75 dollari ti puoi sposare. Al comune di Roma, nel 2017, c’era una lunghissima lista d’attesa per le unioni civili che erano state riconosciute l’anno prima dalla Legge Cirinnà».

Gli Stati Uniti hanno approvato il matrimonio tra coppie dello stesso sesso già nel 2015. La legge americana, a differenza di quella italiana, riconosce la genitorialità di una coppia gay al momento della nascita dei figli, proprio come per le coppie eterosessuali. Non c’è alcuna distinzione.

In Italia invece la legge Cirinnà è stata approva solo dopo aver stralciato dalla norma l’adozione del figlio biologico del partner, quella che viene chiamata stepchild adoption, un termine inglese che in Italia genera solo confusione.

Chiara e Christine hanno fatto ricorso all’inseminazione in vitro a Barcellona, in Spagna, con il seme di un donatore anonimo. È Christine che ha portato avanti la gravidanza: «In Italia, la procreazione assistita è riservata solo alle coppie eterosessuali con problemi di fertilità. Purtroppo, se sei gay e vuoi avere un bambino devi anche essere in grado di sostenere tutte le spese per l’inseminazione all’estero».

Christine è rimasta incinta di Arturo al secondo tentativo a Barcellona, una settimana prima che in Italia iniziasse il lockdown. Ricordo quando mi scrissero da Roma per darmi la notizia, erano così felici. Mentre l’Italia entrava nel periodo forse più drammatico della sua storia repubblicana, a loro la vita faceva un dono grandissimo. La strada però era tutt’altro che in discesa. I figli delle coppie dello stesso sesso sono tra i soggetti umani più studiati degli ultimi decenni. Quali ripercussioni psicologiche avranno questi bambini quando capiranno che, a differenza di molti loro coetanei, sono figli di due papà o di due mamme? Avranno più problemi? Diventeranno anche loro gay?

Gli studi condotti in questi anni hanno dimostrato che non c’è alcuna differenza nello sviluppo psichico e cognitivo tra questi bambini e i figli di coppie eterosessuali. Anzi, i figli di coppie dello stesso sesso, secondo una ricerca olandese su bambini nati tra il 1995 e il 2005, vanno meglio a scuola. Ma questo potrebbe anche dipendere dal fatto che sono stati molto desiderati dai loro genitori (visto che è più difficile per le coppie gay avere dei figli) e che queste coppie hanno maggiori disponibilità economiche.

Secondo uno studio australiano, i figli di coppie omosessuali sono addirittura più felici e questo, dicono i ricercatori, potrebbe dipendere dal fatto che i genitori si dividono più equamente la gestione della famiglia, non essendoci divisioni dei compiti legate a stereotipi di genere.

La lunga attesa

Solitamente, in Italia, le coppie dello stesso sesso devono intraprendere un percorso di adozione per consentire al genitore non biologico o intenzionale, in questo caso Chiara, di essere riconosciuto come tale.

Di solito aspettano qualche anno prima di iniziare il processo di adozione per dimostrare ai giudici che hanno una relazione stabile.

Non si tratta però di adozioni comuni. La legge le definisce “adozioni in casi particolari” proprio perché, a differenza di quelle comuni, il bambino non è orfano. Inoltre, questo istituto giuridico presenta notevoli differenze rispetto a quello ordinario: alla famiglia del genitore non biologico (nonni, zii, cugini) non viene riconosciuto alcun legame familiare giuridico con il bambino. Quindi l’adottato non può esigere né diritti successori né diritti patrimoniali (non può essere sostenuto economicamente dalla famiglia dell’adottante in caso di mancato sostentamento da parte del genitore adottante) e questo costituisce una grave discriminazione normativa nei confronti dei figli di coppie dello stesso sesso.

Gli assistenti sociali devono verificare la capacità genitoriale dell’adottante (le condizioni economiche, l’idoneità della casa, lo stile di vita) e le cose si complicano in caso di coppie di due uomini che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri (in Italia vietata).

«È una forma di violenza nei confronti del genitore non biologico», mi dice Martina Colomasi, avvocata della Rete Lenford, che ha seguito il caso di Chiara e Christine «il genitore intenzionale deve ricevere il consenso da quello biologico per poter adottare e in caso di separazione della coppia quel consenso viene spesso negato».

A marzo è intervenuta la Corte costituzionale, sollecitando il parlamento italiano a legiferare per salvaguardare i diritti dei figli di coppie omogenitoriali. Il caso sul quale la Corte si è espressa era quello di una donna che negava alla ex partner di adottare le figlie che avevano progettato di avere insieme. «I processi di adozione sono molto lunghi», dice ancora Martina Colomasi, se il genitore biologico morisse, il bambino verrebbe automaticamente dichiarato orfano e quindi formalmente adottabile. Chiara non avrebbe avuto alcuna certezza di poter ancora adottare Arturo se fosse accaduto qualcosa a Christine».

Era questo che angosciava Chiara nei mesi della gravidanza di Christine, il sentire di non esistere per la legge, di non contare, di non essere anche lei mamma di Arturo. «Io non volevo adottare mio figlio. È una questione di giustizia. Sentivo di essere già sua madre, proprio come Christine». Per questo, con l’aiuto di Martina e della Rete Lenford, che da dodici anni assiste la comunità Lgbtq, Chiara e Christine hanno tentato un percorso diverso.

Questione di residenza

In Italia, alcuni comuni, tra cui quello di Torino, riconoscono la genitorialità di entrambi i partner di una coppia dello stesso sesso. «Ho consigliato a Chiara e Christine di trasferire temporaneamente la loro residenza a Torino», dice Martina «un percorso che per molte ragioni, soprattutto economiche, non tutte le coppie possono permettersi».

La Rete Lenford offre consulenze a prezzi molto calmierati proprio perché crede che l’assistenza legale debba essere alla portata di tutti. Martina, che è eterosessuale, è stata fondatrice dell’associazione LUISS Arcobaleno durante gli anni dell’università. È appassionata al suo lavoro e crede fermamente nell’attivismo. «Poi abbiamo chiesto alla sindaca Chiara Appendino, che da sempre sostiene le coppie dello stesso sesso, di riconoscere la genitorialità di Chiara e Christine anche prima della nascita di Arturo. Abbiamo utilizzato un istituto giuridico che esiste per i figli nati fuori dal matrimonio».

Quella del riconoscimento pre-nascita è una norma prevista espressamente per i figli di coppie non coniugate. Il comune di Torino non l’aveva mai usata per coppie omogenitoriali.

Racconta Chiara che al momento della firma di fronte alla sindaca e all’assessore alle pari opportunità è scoppiata in lacrime: «Ho pianto lacrime zitte e lunghe, che sgorgavano da un fiume carsico che mi scorreva nel profondo: io quel giorno ho cominciato ad esistere come madre anche per il mio paese».

Christine invece ricorda con emozione il momento in cui è andata in circoscrizione a Torino a richiedere la carta di identità per Arturo, che ha ricevuto i cognomi di entrambe le sue mamme: «Mi sono sentita sollevata dopo aver visto sulla porta dell’ufficio comunale l’adesivo che diceva Friendly Piemonte: omofobia, no grazie. Non ho dovuto spiegare all’impiegato del comune che eravamo due mamme, non ho dovuto raccontare tutta la storia dal principio, non ho dovuto sperare che il signore che si occupava della nostra pratica fosse di buon umore quel giorno, e non ho dovuto cercare di essergli simpatica. L’impiegato ha preso i nostri documenti e ha inoltrato la richiesta. Ci ha trattate come qualsiasi altra coppia. È stato un momento speciale per noi».

Che storia la tua, caro Arturo. Alla fine, le tue mamme hanno percorso metà della penisola sfidando la pandemia perché tu avessi gli stessi diritti degli altri bambini. La tua è una bellissima storia d’amore e dovrebbe bastare solo questo al parlamento italiano per dare una legge nazionale a tutti i figli di due papà e di due mamme, i cui diritti non possono dipendere dalle disponibilità economiche dei genitori. Perché sono tanti gli Arturo di questa penisola.

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