Nelle guerre contemporanee non esistono salvacondotti. Si spara sulla Croce Rossa, si spara sugli ambasciatori (Luca Attanasio a Goma, due anni fa), si spara sui becchini durante i funerali. E si spara sui giornalisti, ultimo caso quello del collega Corrado Zunino di Repubblica: il cecchino che lo ha ferito e ha ucciso il fixer Bogdan Bitik nel cannocchiale deve aver ben visto la scritta “press” sul suo giubbotto antiproiettile.

I testimoni sono scomodi, a conferma di quanto disse un premio Nobel per la letteratura, Ivo Andrić: «La prima vittima della guerra è la verità». Perché i testimoni possono acclarare le nefandezze, portare a conoscenza dell’opinione pubblica le atrocità che si tenta di occultare. E se la prima vittima della guerra è la verità, l’informazione stessa è un’arma di guerra, sempre più potente.

Guerre contro i civili

C’era un tempo una sorta di codice cavalleresco, era quando ci si combatteva tra eserciti che avevano una propria seppur perversa morale. Certo si uccideva, ma salvaguardando l’onore di soldato. Stando al Novecento, nella Prima guerra mondiale il 90 per cento delle vittime furono militari, il 10 per cento civili. Nella Seconda guerra mondiale le cifre si equilibrano, 50 e 50. Dopo il 1945, il ribaltamento: 90 per cento di morti civili e 10 per cento militari.

Le guerre diventano contro i civili per favorire pulizie etniche, spostamenti di popolazioni, seminare il terrore. E in Ucraina? Nonostante sia il conflitto più mediatizzato di sempre non esistono cifre attendibili, solo numeri sparati a caso o per ragionamenti indotti. La disinformazione prodotta dagli stati maggiori tende a minimizzare le perdite nel proprio campo e ad aumentarle in quello dei nemici, nell’impossibilità di verifiche sui teatri di battaglia.

È nelle democrazie che l'informazione di guerra è più temuta, nelle dittature il problema non si pone per la censura preventiva di stato, i russi hanno oscurato Internet fin dagli esordi della loro “operazione speciale”. Gli americani lo capirono con il Vietnam, quando i reportage dal fronte mutarono la percezione di quanto stava succedendo nel sud-est asiatico. E di conseguenza presero le contromisure.

News management

Nel Golfo 1991 fu coniato un neologismo, “news management”. Niente più cronisti liberi di scorrazzare sui fronti, ma irregimentati e costretti a vedere solo ciò che i militari volevano vedessero, il prodromo che avrebbe portato ai cosiddetti “embedded”, cioè al seguito delle truppe, con le evidenti limitazioni a svolgere la professione in modo libero. Come se, per parafrasare un famoso detto, la guerra fosse una cosa troppo serie per lasciarla raccontare ai giornalisti.

Nel sempiterno scontro tra chi vuole nascondere e chi vuole portare alla luce, si affinano da entrambe le parti gli strumenti, cambia il modo di fare la professione. Si diffida sempre di più delle fonti ufficiali e non si può credere nemmeno ai propri occhi se la sofisticazione tecnologica permette di manipolare i video, le fotografie, creare verità artefatte perché la situazione non prevede chiaroscuri e la propaganda rispetta il motto «in guerra tutto è permesso». Prevale l’assioma brechtiano per cui «delle cose certe la più certa è il dubbio». Una diffidenza che alimenta lo spirito critico. E negli articoli fioriscono i verbi al condizionale, le sottolineature sulla fonte delle notizie «stando a quello che riferisce...».

La crisi economica che riguarda soprattutto i giornali di carta ha mutato anche il profilo del giornalista. Un inviato di guerra costa, l’assicurazione, il fixer, talvolta uno o più guardie del corpo (prerogativa molto americana), l’’albergo, i pasti. E tuttavia il desiderio di molti di andare comunque a spese proprie a seguire gli eventi, ha fatto proliferare il numero dei freelance, mal pagati e senza nessuna tutela, talvolta senza esperienza, ma eroici nella loro supplenza.

Si matura facendo, la guerra come un’enorme bottega-laboratorio, al rischio di inciampi e strafalcioni. Eppure necessari per formarsi, acquisire gli strumenti per non farsi ingannare dalle reboanti sirene delle menzogne.

C’è un caso che bisognerebbe ripassare ogni volta che si parte per un fronte. 1989, rivoluzione rumena. La scintilla che scatenò la rivolta contro il dittatore Ceausescu fu la repressione a Timisoara di una manifestazione di minatori con molti morti sul terreno.

Mesi dopo, un’inchiesta del giornale tedesco Stern appurò che non c’era stato alcun massacro, i morti erano cadaveri presi dall’obitorio e vestiti da minatori per inscenare la carneficina. Ecco. Se “nel durante” il giornalismo causa anche la velocità di diffusione delle notizie e l’agguerrita concorrenza, fatica a tener fede ai suoi principi fondanti. È “nel dopo”, nel lavoro certosino di verifica, che si riappropria pienamente della sua missione. Benché in controtendenza con la frenesia dei tempi, sia benedetta la lentezza dell’inchiesta.

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