Anche se i numeri dei positivi si stanno assestando e arrivano i primi timidi risultati del lockdown imposto ormai da due settimane, con il calo dell’indice Rt e dei ricoveri, il caso piemontese è tutt’altro che chiuso. La regione che da giorni combatte con i dati, con i posti letto occupati all’85 per cento e con il censimento giornaliero delle terapie intensive disponibili (erano solo 10 due giorni fa), sembra non uscire da un incubo che con ogni probabilità durerà tutto l’inverno. 

«I posti sono risicati e cerchiamo di aprirne di nuovi solo se necessario», commenta Maurizio Berardino, direttore del dipartimento di Anestesia e Rianimazione della Città della Salute, riferendosi alle terapie intensive. «A differenza della prima ondata dobbiamo far restare attivi i due percorsi: convertire una terapia intensiva a Covid, la taglia fuori da tutto il resto – aggiunge – Anche crearne da zero, il che richiede molto tempo, è inutile se poi non abbiamo il personale specializzato a farle funzionare. L’organico era carente da ben prima dell’epidemia». A oggi sono 370 i posti di terapia intensiva, in aprile si era arrivati a gran fatica a 450 per i pazienti Covid, limitando di molto le altre prestazioni. 

Un lunga storia

Nelle mancanze di questi giorni è riassunta la storia della sanità piemontese, martoriata da tagli e restrizioni. Ma anche da un processo “lombardizzazione” che ha penalizzato la medicina territoriale favorendo un sistema che, come quello della Lombardia, ha nell’ospedale il proprio centro nevralgico. Posti letto, ospedali, medicina territoriale, vent’anni di magra che oggi costano caro.

Ci sono alcune date che hanno scandito la rapida discesa verso il baratro. Una è certamente il 2 agosto 2010, giorno in cui è stato firmato il “piano di rientro” ed è stato definito l’obiettivo per gli anni successivi: tagliare tutto il possibile. In accordo con i ministeri di Sanità ed Economia, al governo c’era Silvio Berlusconi, la giunta del leghista Roberto Cota (2010-2014), non potuto far altro che prenderne atto.

Non era andata meglio con le precedenti giunte: anche con Enzo Ghigo (FI), 1995-2005, e Mercedes Bresso (Pd), 2005-2010, l’accetta non si era mai fermata. Il piano di rientro è durato sette anni – il Piemonte è stata l’unica regione del nord ad attuarlo interamente, mentre la Liguria lo ha fatto solo per un anno –  si è riusciti a rientrare dei 7 miliardi previsti, ma a un prezzo altissimo: otto ospedali chiusi, meno 3.800 unità di personale sanitario e un aumento del 20 per cento di pazienti per ogni medico di famiglia. Non solo, sono stati persi anche 515 medici ospedalieri e 6mila posti letto. Di questi molti di terapia intensiva, il che ha reso il Piemonte la regione del nord con meno letti in terapia ogni 100mila abitanti (7,3 contro i 12 della Liguria, 10 di Emilia-Romagna e Veneto, 8,9 della Lombardia). 

«Al momento mancano anestesisti, pneumologi, geriatri, medici d’urgenza, di medicina interna e malattie infettive. Sono 181 in Piemonte quelli che hanno questa specialità: quanti sono stati assunti? L’abbiamo chiesto alla regione attendiamo una risposta», spiega Chiara Rivetti, segretario regionale di Anaao Assomed, il sindacato dei medici.

A oggi sono stati impiegati molti “camici grigi”, medici senza specialità, vanno nell’ospedale da campo del Padiglione 5 del Valentino e nei Servizi di Igiene e Sanità Pubblica (Sisp) delle Asl, ma servono medici formati. «Servono in particolare negli ospedali di provincia: Chivasso, Cuorgnè, Ivrea dove negli anni si sono tappati i buchi con i medici a gettone delle cooperative. Vanno aumentate le borse di studio e i posti in specialità, abbiamo tanti laureati, ma pochi specialisti».

Si usano ortopedici, oculisti, chirurghi che non sono abituati alle polmoniti, per di più su malati complessi affetti da diverse patologie. «Già quando facevo trapianti alle Molinette ci tiravamo il collo perché mancavano infermieri e i medici bastavano appena», ricorda Mauro Salizzoni, luminare dei trapianti, ora in Consiglio regionale con il Pd. «Gli organici sono da tempo ridotti e ora che il 10 per cento è contagiato è ancora peggio. Bisognava pensarci dopo la prima ondata, diamo suggerimenti, ma non sempre sono accolti».

Bandi tappabuchi

Non va meglio agli infermieri, i bandi tappabuchi emessi da ottobre non bastano. «Nuovi reparti non si possono aprire senza personale – dice Francesco Coppolella, segretario regionale Nursid, sindacato degli infermieri – molti ormai sono contagiati, negli ospedali a quest’ora si sarebbe dovuti garantire percorsi puliti, invece da maggio non è stato fatto niente». E anche in questo caso si pagano gli anni di magra: «Abbiamo perso cinquemila infermieri tra turnover bloccato e assunzioni inesistenti. Si sono susseguite politiche che guardano solo al bilancio». 

«Il Piemonte paga un passato di regole nazionali molto cocenti. Si è dovuto tagliare quando stavano crescendo le attività territoriali, e a emergenza arrivata queste non erano ancora pronte», commenta Gabriella Viberti, ricercatrice dell’Istituto ricerche regione Piemonte. Si riferisce alle “case della salute”, dove i medici di medicina generale lavorano accanto ad altri specialisti, la loro presenza avrebbe alleggerito di molto la pressione sugli ospedali. Andare a cercare i tagli a seconda dell’appartenenza politica ha poco senso per la ricercatrice: «Tutti dicono di voler rinforzare il territorio, ma servono finanziamenti grandi per l’assistenza domiciliare, critica già prima del Covid». E mentre per le altre regioni la spesa pro capite sanitaria negli anni è aumentata, qui è rimasta quasi invariata.   

Durante la presidenza di Sergio Chiamparino (2014-2019), che ha concluso il piano di rientro nel 2017, è stata approvata una delibera che ha ridotto ancor di più i posti letto negli ospedali e che portava avanti una visione meno ospedalo-centrica, tipica delle giunte di destra (basti pensare alla creazione della Città della Salute a Torino con Cota, un polo che ha conquistato il triste primato di ospedale più indebitato d’Italia). Il piano di Chiamparino prevedeva il potenziamento proprio della medicina territoriale, ma la mancanza di fondi ne ha impedito la realizzazione.

Così come procede a rilento la realizzazione delle unità Usca, annunciate dall’assessore alla Sanità Icardi, di cui ci sarebbe tanto bisogno al momento. Lo scorso aprile lo stesso Chiamparino, sentendosi attaccato dal presidente Cirio, ha invocato una commissione d'inchiesta per un confronto dei dati degli ultimi dieci anni. «Per anni è stata convinzione comune che il bilancio della sanità regionale fosse la causa dell’incredibile “buco nero”, ma analisi approfondite dimostrano che la sanità piemontese non è mai stata in deficit dal 2005», hanno scritto Rosella Zerbi e Giorgio Cavallero sulla rivista dell’Ordine dei medici della provincia di Torino. Sembra infatti che parte dei fondi statali siano stati usati per spese extra-sanitarie. 

Gli errori della prima ondata poi, come l’utilizzo delle Rsa, la perdita di migliaia di mail dei medici di base e la mancanza di laboratori per i tamponi, non sono imputabili a chi è venuto prima. Ma il gioco dello scaricabarile non è cosa nuova in Piemonte e, c’è da giurarci, continuerà. E pensare che proprio a inizio febbraio erano stati annunciati nuovi tagli per provare a risolvere il problema dei conti in rosso delle Asl: un passivo di 407 milioni di euro solo nel 2019, coperto con difficoltà dalla regione.

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