Dicono che non capiterà. Ma se dovesse capitare? Parliamo del rischio di stop che è tornato a incombere sul calcio italiano in seguito al moltiplicarsi dei casi di Covid-19 e alla mancata disputa di due partite del campionato di Serie A: Genoa-Torino, rinviata dalla Lega perché la squadra di casa aveva troppi giocatori contagiati dal virus, e Juventus-Napoli non disputata per motivi intorno ai quali si è creato un caos tutto da districare. Tutto ciò avviene dopo che sono state disputate soltanto tre giornate di campionato. E se l'inizio della stagione è di questo tenore, i presagi in vista dell'inverno non sono incoraggianti. Tanto più che i casi di positività si accumulano da un giorno all'altro. Gli ultimi di una lista in costante aggiornamento sono gli interisti Milan Skriniar e Alessandro Bastoni, il portiere dell'Atalanta e della nazionale Under 21, Marco Carnesecchi e due giocatori di Serie B che giocano nel Monza. Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che è risultato positivo anche il presidente della Lega di A, Paolo Dal Pino, e che nessuno dei 17 calciatori del Genoa incappati nel virus risultava negativizzato dopo il giro di tamponi effettuato il 6 ottobre.

Ovvio che si farà di tutto per scongiurare un nuovo lockdown del calcio giocato, così come si sta facendo di tutto per evitare che altri settori della vita sociale e economica del paese vengano rimessi in pausa. Ma già questo procedere a strappi, senza certezze regolamentari e di calendario, rischia di essere un danno per la regolarità e la credibilità del campionato. Soprattutto, ha molta probabilità di esserlo per la "vendibilità” del prodotto. Che è condizionato da una struttura industriale in palese sofferenza, governata malissimo e sempre più in affanno sul piano della concorrenza internazionale. Un business da rifondare, ma intanto sul punto di affondare. E mentre in via Rosellini (sede della Lega di Serie A) si ragiona di grandi strategie industriali, di media company gestita in house e di ingresso di fondi d'investimento nel business, rimane la fragilità di un sistema economico che non è stato capace di modernizzarsi e arranca dietro le leghe europee di riferimento. Questa fragilità si ripercuote a cascata sulle categorie inferiori, che soffrono di problemi diversi e legati alle differenti dimensioni ma non per questo meno gravi. Perché il punto è proprio questo: lockdown o no, il calcio italiano è scassato di suo, a tutti i livelli. Presenta una rudimentale struttura del business, ciò che viene reso palese dal confronto con gli altri campionati di punta in Europa. La pandemia potrebbe soltanto dargli il colpo di grazia, non certo minare un organismo sano.

Il calcio degli altri

Si diceva delle leghe di riferimento. Quelle che vengono comprese nel gruppo battezzato “big 5”, le prime cinque leghe del calcio europeo. Menzioniamole in ordine alfabetico: Francia (Ligue 1), Germania (Bundesliga), Inghilterra (Premier League), Italia (Serie A) e Spagna (Liga). Secondo questo criterio ordinale l'Italia è quarta, e quarta rimane se si guarda anche al livello di fatturato. La Serie A è impietosamente indietro rispetto a quelle che sono le tre reali concorrenti: Premier League, Bundesliga e Liga (la Ligue 1 francese è la piccola fra le grandi). I dati elaborati da due distinte fonti (l'European club footballing landscape dell'Uefa e il report calcio della Federazione italiana gioco calcio), in questo senso, sono senza appello. L'ultimo rapporto sul benchmarking pubblicato dall'Uefa a gennaio 2020, relativo all'anno finanziario 2018, mette in fila i ricavi delle leghe europee. Nel gruppo di testa la Premier League stacca tutti sommando 5,349 miliardi di euro. Alle sue spalle, nettamente staccate, Bundesliga e Liga si disputano la seconda piazza (rispettivamente 3,156 miliardi di euro e 3,145 miliardi di euro). I principali tornei tedesco e spagnolo sono separati da un ulteriore fossato rispetto alla Serie A, che nel 2018 ha cumulato ricavi per 2,307 miliardi di euro. Quindi c'è un ulteriore scarto per la Ligue 1, che nell'anno in questione ha toccato quota 1,694 miliardi di euro. Il dato sulla scarsa competitività internazionale della Serie A sarebbe già desolante di per sé, ma viene ulteriormente appesantito dall'analisi disaggregata che mette in evidenza la prima condizione di dipendenza del nostro calcio: quella da diritti audiovisivi. Su questo piano la Serie A è seconda soltanto alla Premier League, che vede dipendere per il 53 per cento i propri ricavi dai versamenti delle emittenti. La Serie A si attesta sul 47 per cento dei ricavi, mentre la Liga si ferma al 42 per cento, la Ligue 1 al 37 per cento, la Bundesliga soltanto al 34 per cento.

Inoltre, la cattiva struttura del business per il nostro massimo campionato è testimoniata dalla scarsa incidenza dei ricavi da botteghino: in media il 12 per cento, il valore più basso delle Big 5 (Premier League 13 per cento, Bundesliga e Ligue 1 16 per cento, Liga 18 per cento). Fra l'altro il dato percentuale dice ancora poco. Perché il 13 per cento di ricavi da “gate receipt” significa per la Premier League un incasso da 723 milioni di euro con una media per club di 36,2 milioni, mentre il 12 per cento della Serie A corrisponde a 268 milioni di euro con una media per club di 13,4 milioni. Cifre poco più alte rispetto a quelle della Ligue 1 (266 milioni di euro totali e 13,2 milioni di media per club) e nettamente inferiori a quelle di Liga (555 milioni di euro totali e 27,8 milioni di media per club) e Bundesliga (511 milioni di euro totali e 28,4 milioni di media per club). Dunque per i club della Serie A la dipendenza dalla risorsa dei diritti audiovisivi è drammatica. Ma ne esiste anche un'altra, non meno grave: quella da plusvalenze.

Il gioco delle plusvalenze 

Quanto sia economicamente spurio il meccanismo delle plusvalenze sui trasferimenti di calciatori (l'utile di bilancio prodotto dalla differenza positiva fra la cessione dei diritti economici su un calciatore e il valore che di quegli stessi diritti rimaneva da ammortare) è testimoniato proprio dal rapporto dell'Uefa. Che non inserisce le plusvalenze nelle voci di ricavo, composte a loro volta da diritti audiovisivi, ricavi Uefa, incassi al botteghino, sponsorizzazioni e la generica voce “altri ricavi”. Il motivo di questa esclusione, spiegato dall'Uefa in una didascalia, va al cuore dell'anomalia dell'azienda calcio. Le plusvalenze non sono prodotto da “attività tipica”, ma da cessione di asset. Il fatto è che il calcio ha trasformato la cessione di asset in un’attività tanto frequente da essere “tipizzata”.

Nello studio l'anomalia del caso italiano viene fuori nella sua interezza. Perché i club italiani, nell'anno finanziario 2018, hanno realizzato plusvalenze in una misura pari al 40 per cento del fatturato. Nettamente dietro alle leghe che occupano i primi tre posti (Spagna 25 per cento, Inghilterra 23 per cento, Germania 20 per cento), battuta soltanto dalla Francia che si attesta sul 54 per cento. Qui sta l'altra anomalia della Serie A italiana: essa registra una quota di plusvalenze rispetto al business che è da lega formatrice e esportatrice di talenti (qual è per tradizione la Ligue 1), anziché reclutatrice e importatrice come le tre leghe che la precedono. Una percentuale persino più alta di altre leghe esportatrici come quelle olandese (36 per cento), danese (37 per cento), polacca (28 per cento) e svedese (24 per cento).

Il dato viene confermato dal Report calcio 2020 della Figc, dove invece le plusvalenze vengono inserite nella struttura del business. Il dato relativo alla stagione 2018-2019, relativo all'intero calcio professionistico italiano (dunque non soltanto la Serie A), parla di plusvalenze per 753 milioni di euro. Esse rappresentano la seconda voce di ricavi per i club professionistici italiani assestandosi a quota 21 per cento del business, dietro soltanto ai diritti audiovisivi (40 per cento) e sopra ai ricavi da sponsorizzazioni e diritti commerciali (19 per cento). Ma quanto di questo valore finanziario corrisponde a denaro reale? Quante di queste plusvalenze sono liquidità vera entrata in cassa anziché scambio di valori pari o equivalenti? Le storie recenti del calciomercato italiano, che abbiamo in parte raccontato, forniscono risposte preoccupanti.

Fare una plusvalenza incrociata da 10 milioni di euro (cedo Tizio al club A per 10 milioni con plusvalenza 10 milioni e prendo Caio dal club A per 10 milioni) significa fare 20 milioni di attivo (la plusvalenza più il calciatore incamerato che diventa un asset), caricarsi 10 milioni di ammortamento che è passività sui prossimi bilanci e ricevere 0 euro di liquidità in cassa. Un giochino che sta andando a esaurirsi. Con stadi vuoti e sponsor riluttanti causa crisi, rimangono soltanto i diritti tv. Che col campionato fermo non vengono pagati, ma che anche col campionato giocato a singhiozzo si deprezzano. Se il Covid-19 porterà a un nuovo lockdown, la Serie A si ritroverà sul lastrico.

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