Nei giorni scorsi, una controversa vicenda giudiziaria ha riguardato le linee guida sulla “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-CoV-2” contenute nella circolare del ministero della Salute, adottata il 30 novembre 2020 e aggiornata al 26 aprile 2021, mutuate dall’Aifa.

La circolare consiste in un ampio documento, «redatto da un apposito gruppo di lavoro costituito da rappresentanti istituzionali, professionali e del mondo scientifico», che «illustra le modalità di gestione domiciliare del paziente affetto da Covid-19 da parte del medico di medicina generale (di seguito Mmg) e del pediatra di libera scelta (di seguito Pls) sulla base delle conoscenze disponibili a oggi».

La Circolare fornisce indicazioni per i “casi lievi”: è consigliata «una eventuale terapia sintomatica di supporto» e una «vigile attesa (intesa come costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente)»; nonché sconsigliato l’utilizzo di alcuni farmaci, come ad esempio i cortisterioidi (se non per forme gravi della malattia), eparina (se non «nei soggetti immobilizzati per l’infezione in atto»), antibiotici (se non in casi di acclarata sovrainfezione batterica), idrossiclorochina («la cui efficacia non è stata confermata» in nessuno studio).

Il Tar del Lazio

Alcuni medici hanno fatto ricorso contro la circolare del ministero dinanzi al Tar del Lazio, che ha accolto l’istanza e annullato le linee guida nella parte in cui, «anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, prevedono un lungo elenco delle terapie da non adottare, divieto che non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti».

I giudici amministrativi hanno affermato che «il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche», e così «impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci», si pone «in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicati dalla scienza e dalla deontologia professionale».

A questo riguardo, il codice deontologico stabilisce che «l’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione, che costituiscono diritto inalienabile del medico». Parimenti, il giuramento di Ippocrate prevede per il medico «libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento».

La sentenza del Tar lascia perplessi. Le linee guida non impongono certi trattamenti sanitari né vietano di somministrarne altri, come invece si afferma nella pronuncia. Esse, come strumenti di soft law, non solo non contengono prescrizioni vincolanti, ma si auto qualificano espressamente come «raccomandazioni». Dunque, la motivazione dell’annullamento della circolare, che secondo il Tar imporrebbe ai medici obblighi stringenti circa i trattamenti terapeutici da seguire oppure da evitare, appare priva di fondamento.

Il Consiglio di stato

AP Photo

Alle stesse conclusioni critiche verso la sentenza del Tar è arrivato il Consiglio di stato, che qualche giorno dopo ne ha sospeso l’esecutività. Per i giudici di palazzo Spada il documento ministeriale «contiene, spesso con testuali affermazioni, “raccomandazioni” e non “prescrizioni”, cioè indica comportamenti che secondo la vasta letteratura scientifica sembrano rappresentare le migliori pratiche, pur con l’ammissione della continua evoluzione in atto».

Di conseguenza, «non emerge alcun vincolo circa l’esercizio del diritto-dovere del medico di scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore». Al contrario, nella circolare sono contenuti «parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello anche internazionale». In altre parole, le linee guida del ministero contengono solo suggerimenti per il personale sanitario, non obblighi.

Pertanto, conclude il Consiglio di stato, la circolare non intacca le prerogative di scelta terapeutica dei medici, e anzi la sua sospensione «determinerebbe semmai il venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato».

Il valore delle linee guida

Cecilia Fabiano/ LaPresse

In attesa della decisione finale, il prossimo 3 febbraio ci sarà la trattazione collegiale in camera di consiglio, per comprendere pienamente la portata delle decisioni contrastanti serve valutare un elemento importante, forse trascurato nei commenti sulla vicenda giudiziaria: la valenza delle linee guida in ambito medico, ai sensi di legge.

Il riferimento è l’articolo 590 sexies del codice penale, ai sensi del quale la punibilità del sanitario va esclusa qualora la morte o la lesione del paziente si siano verificate «a causa di imperizia», ove il sanitario stesso abbia rispettato «le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

In altre parole, perché sia esclusa la colpa per imperizia, cioè, tra l’altro, per ignoranza, incapacità, inesperienza, il medico deve attenersi alle linee guida e/o alle buone pratiche, che costituiscono cause esimenti in caso di eventi sfavorevoli, valutando se effettivamente esse siano adeguate al caso concreto.

Le linee guida che valgono a escludere la responsabilità del medico, alle condizioni sopra indicate, sono quelle «elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie», come individuati dal ministero della Salute. Tali linee guida devono essere «definite e pubblicate ai sensi di legge», dice la norma, cioè attraverso il Sistema nazionale per le linee guida (Snlg).

La mancata pubblicazione di quelle del ministero sulla piattaforma non ne inficia validità ed effetti, data l’ufficialità della fonte.

Pertanto, se è vero che il medico non è obbligato a conformarsi alle raccomandazioni, come rileva il Consiglio di stato, è altrettanto vero che, se non vi si conforma, nonostante esse siano idonee al caso concreto, la sua responsabilità per imperizia in caso di eventi avversi non può essere esclusa.

Di certo deve sempre prevalere “scienza e coscienza”, e non la pedissequa osservanza delle linee guida. Ma, in mancanza di consolidate evidenze della “scienza” cui ispirarsi, la “coscienza” può indurre il medico a seguire le indicazioni fornite dalla massima autorità in tema di salute, il ministero. 

E, sul piano giuridico, il fatto di seguirle pone il medico stesso in una posizione più rassicurante, come detto, specie nella situazione inedita della pandemia.

Detto ciò, i medici i quali hanno agito per l’annullamento della circolare, pur non essendo mai stati obbligati ad adeguarsi, reputano forse che, senza di essa, la prescrizione di cure più o meno “stravaganti” possa essere valutata in modo meno severo, quanto a responsabilità di chi le prescrive?

© Riproduzione riservata