Harry (20 anni), Hossain Fasal (32 anni), Aymen Mekni (33 anni), Vakhtang Enukidze (38 anni), Orgest Turia (28 anni) Moussa Balde, (23 anni): a loro è dedicato il rapporto Buchi neri. La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) di Cild, Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili. I sei uomini sono morti negli ultimi due anni all’interno dei Cpr italiani. «Colpevoli di viaggio», c’è scritto.

Il documento

La dura realtà dei dieci centri sul nostro territorio è fotografata in quasi 300 pagine: detenzione, diritti, enti gestori, salute, fino ai mesi del Covid. Niente si salva di queste prigioni pensate per espellere gli stranieri senza regolari documenti. Anche se negli anni hanno cambiato nome, la sostanza è rimasta immutata: sono luoghi di sofferenza, opachi, dalla giurisdizione straordinaria, nascosti agli occhi di tutti. Grazie ai quali, denuncia l’associazione, gli «stranieri sono stati progressivamente trasformati nei nuovi nemici, trattati peggio dei criminali».

Non è stato semplice entrare in questi luoghi tenuti all’oscuro e, sottolinea il rapporto, alla richiesta al ministero dell’Interno di autorizzare una sua delegazione ad accedere, è seguito il silenzio.

Torino, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Ponte Galeria (Roma), Caltanissetta, Trapani, Bari, Brindisi Restinco, Palazzo San Gervasio (Potenza) e Macomer (Nuoro), sono i dieci centri attualmente attivi, con 1.100 posti. Non si sono fermati neanche durante la pandemia, nonostante le frontiere chiuse e l’impossibilità di attuare rimpatri. Illegittimità, discrezionalità e mancanza di diritti: quello dei Cpr è un intero modello da ripensare.

Anche alla luce del loro scopo: basti pensare che meno del 50 per cento dei trattenuti è rimpatriato, gli altri, scadute le tempistiche di detenzione, tornano fuori, spesso dando il via a un loop tra libertà e sbarre. «Va sempre ricordato che lo stato non è proprietario esclusivo della vita delle persone che custodisce forzatamente.

Lo stato, e nel caso dei Cpr i loro gestori privati, deve assicurare il rispetto della dignità umana di ciascuno degli ospiti presenti e deve rendere conto alla società esterna circa il modo in cui gestisce questi luoghi», denuncia Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone.

La gestione dei centri da parte degli enti privati permette a grandi multinazionali di aggiudicarsi appalti a ogni bando meno dispendiosi, diminuendo numerosi servizi verso i migranti. Un business consentito dallo stato, che, talvolta, delega anche l’onere sanitario.

I numeri

La Cild ha calcolato che nel periodo 2018-2021 sono stati spesi 44 milioni di euro (nello specifico 43.964.512 euro, esclusa l’Iva) per la gestione da parte di soggetti privati, cui vanno sommati i costi del personale di polizia e quelli relativi alla manutenzione delle strutture. I più costosi sono stati Roma e Torino. Quello della capitale, conosciuto come la “Guantanamo italiana”, aperto nel 1998 e unico in cui fanno accesso anche le donne, è stato spesso teatro di contestazioni, scioperi della fame e rivolte da parte dei trattenuti: come la “protesta delle bocche cucite” del 2013, messa in atto per denunciare le condizioni di vita inumane di Ponte Galeria.

Quello piemontese è tristemente noto perché tra le sue mura negli ultimi due anni sono deceduti Hossain Faisal e Musa Balde. Entrambi avrebbero avuto bisogno di assistenza psicologica. Anche gli avvocati, a cui Cild ha sottoposto numerose domande attraverso dei questionari mirati, confermano mancanze sul piano informativo e difensivo, per cui anche far valere i propri diritti di detenuto appare impossibile.

Le ore di informazione normativa a settimana sono poche. Nel centro di Macomer sono otto, che si traducono in nove minuti a detenuto. Interpreti o traduttori non assistono agli incontri, anche quando ce ne sarebbe necessità. Nel 2020 sono transitati nei Cpr italiani 4.387 persone (di cui 223 donne) e di queste ben 2623 erano di nazionalità tunisina. La seconda nazionalità più numerosa è quella marocchina (240), seguono nigeriani (204), egiziani (125), albanesi (110), gambiani (101) e algerini (97).

 

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