Qualche giorno fa, il tribunale di Kiev ha condannato all’ergastolo un sergente russo per l’uccisione di un civile disarmato. Si è trattato del primo processo per crimini di guerra, dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia. Successivamente, due soldati russi sono stati condannati a undici anni e mezzo di reclusione per aver per aver colpito con missili multipli due villaggi nella regione nordorientale di Kharkiv.

Inoltre, secondo quanto riportato dal giornale britannico The Guardian, russi e le milizie filorusse nel Donbass, a loro volta, vogliono istituire un processo - ispirato a quello di Norimberga - per i presunti crimini di guerra commessi dagli ucraini nella regione, innanzitutto i componenti del Reggimento Azov.

A fronte di queste iniziative, serve chiedersi se sia legittimo processare prigionieri di guerra nel corso della guerra stessa o, quanto meno, se ciò sia opportuno.

La legittimità di un processo in guerra

Il diritto internazionale non vieta i processi per crimini di guerra che si svolgono durante le ostilità. Anzi, la terza Convenzione di Ginevra afferma espressamente che «ogni istruzione giudiziaria contro un prigioniero di guerra» va condotta «al più presto possibile», «il più rapidamente», tenuto conto delle circostanze.

La Convenzione dispone una serie di diritti e garanzie processuali per il prigioniero di guerra. E, secondo lo Statuto di Roma del 1998, privare volontariamente il prigioniero del suo «diritto ad un equo e regolare processo» - ad esempio costringendolo alla confessione, rifiutandogli il diritto di appello o non consentendogli assistenza giudiziale - sarebbe esso stesso un crimine di guerra. Sia la Russia che l’Ucraina, firmatarie della Convenzione di Ginevra, sono tenute a rispettarla. L’Ucraina è anche vincolata all’osservanza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che pure contiene norme sul processo equo.

Né è corretto sostenere che la competenza a giudicare crimini di guerra spetterebbe esclusivamente alla Corte penale internazionale (Cpi) - organo giurisdizionale che si occupa dei reati commessi da persone fisiche, non da stati - o a tribunali speciali. Ai sensi del citato Statuto di Roma, i crimini sottoposti alla giurisdizione della Corte sono il genocidio, cioè ogni atto di violenza commesso «nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso»; i crimini contro l’umanità, vale a dire atti di esteso o sistematico attacco compiuti consapevolmente contro popolazioni civili (omicidio, atti inumani diretti a provocare grandi sofferenze o gravi danni ecc.); i crimini di guerra, tra i quali «gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949» (omicidio volontario, tortura o trattamenti inumani, grandi sofferenze ecc.) e «altre gravi violazioni» del diritto internazionale (attacchi contro civili, missioni di soccorso umanitario, ospedali ecc.).

La Cpi non potrebbe giudicare il crimine di aggressione, pure di sua competenza, poiché è necessario che entrambi gli stati coinvolti abbiano ratificato lo statuto di Roma, ma né Russia né Ucraina l’hanno fatto. Potrebbe essere istituito un tribunale speciale.

Affermare che il processo sui crimini commessi in guerra competerebbe solo alla Cpi, come istituzione super partes, è sbagliato, perché la Corte giudica i crimini indicati dallo statuto solo se uno stato non vuole o non può farlo (principio di complementarità). Secondo lo statuto, infatti, «è dovere di ciascun stato esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili di crimini internazionali», e ciò indipendentemente dalla nazionalità, dal paese di residenza o da qualsiasi altro collegamento di tali soggetti con lo stato che intraprende il processo (cosiddetta giurisdizione “universale”).

Quindi, non sempre e non necessariamente i crimini compiuti in una guerra sono giudicati dalla Corte. Va anche detto che finora i processi della Cpi sono stati celebrati molti anni dopo i fatti. Basti pensare al caso di Ali Muhammad Ali Abd-Al-Rahman - ex comandante di una milizia filo-governativa in Darfur, ove tra il 2003 e il 2004 vi sono stati circa 400mila morti e milioni di sfollati - il cui processo per crimini di guerra è iniziato solo due mesi fa circa. Peraltro, lo svolgimento di un giudizio nell’immediatezza del reato rende più agevole raccogliere prove e trovare testimoni, oltre a soddisfare una diffusa istanza di giustizia.

I dubbi su un processo in guerra

Dunque, non è illegittimo processare prigionieri di guerra nel corso della guerra. Tuttavia, al di là del fatto che i processi svolti in Ucraina espongono i prigionieri ucraini, a propria volta, al rischio di essere sottoposti alla giustizia russa, c’è qualcosa che non torna. Se ne trova espressione in uno dei commenti alla Quarta Convenzione di Ginevra da parte del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), istituzione di carattere umanitario, la cui funzione - definita dalla Convenzione di Ginevra e dai protocolli aggiuntivi del 1977- è proteggere e assistere le vittime dei conflitti armati internazionali, dei disordini e della violenza interna.

Il Comitato ha rilevato, riguardo ai giudizi per crimini di guerra che si svolgono durante la guerra stessa, che è difficile per un imputato «preparare la sua difesa durante le ostilità». Il processo «non dovrebbe avvenire in un momento in cui è impossibile per lui fornire prove che potrebbero ridurre la sua responsabilità o confutarla».

C’è un altro elemento da rilevare: ai sensi della Terza Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra possono essere processati solo da tribunali militari, a meno che le leggi dello stato non consentano il giudizio a quelli civili. I tribunali militari, infatti, sono dotati della preparazione necessaria per esaminare i reati connessi alla guerra. I processi in Ucraina si stanno svolgendo dinanzi a tribunali civili, perché quelli militari sono stati aboliti nel 2010.

Infine, la Terza Convenzione di Ginevra dispone che i prigionieri di guerra debbano essere protetti «contro gli atti di violenza e d’intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità». Sulla base di tale norma, in passato il Cicr ha condannato le immagini di prigionieri in tv.

Nel conflitto in corso questi ultimi sono spesso sugli schermi, e non solo per i processi. Si tratta, infatti, di un conflitto anche mediatico, e per le parti in causa è importante esporre pubblicamente quanto sta accadendo. Anche questo può incidere su un giudizio, e bilanciare le esigenze coinvolte può essere arduo.

Sarà necessario leggere i dispositivi delle sentenze dei processi già effettuati per valutarne le motivazioni. Al di là dei profili di diritto, ci si chiede se le istituzioni di un paese che è parte di un conflitto atroce in corso di svolgimento possano giudicare serenamente i prigionieri, nonostante il coinvolgimento emotivo, garantendo loro di essere processati in modo equo e regolare. Durante una guerra, ove peraltro la comunicazione - anche mediante decisioni giudiziali - assume un ruolo rilevante, il dubbio sorge.

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