Non pieghi l’involucro cartaceo delle bacchette a forma di poggia posate, come fai di solito. Non parli con il cameriere cantonese, che sa che sei di Hong Kong, come fai di solito. Non ordini il fuori menù, melanzane brasate con trita di maiale, come fai di solito.

Seduto tra i tuoi nuovi amici americani, Jack e Jill, apri il menù plastificato. «Oddio, dovremmo provare la zampa di gallina?», ridacchia Jack. «Amo provare le cose strane, ma non prendiamoci proprio le lordate immerse in salse grasse», risponde Jill, «non voglio finire la cena con il mal di testa». E tu finisci per ordinare i piatti che desideri di meno, ovvero quelli di cui pensi non rideranno. In inglese, ovviamente. 

Il cibo arriva. Simuli una qualche forma di sospetto con gli occhi. Fingi persino di essere goffa con le bacchette. «Che lordata», menti, «questa salsa è così appiccicosa».

Sei sopraffatta dai sensi di colpa, scioccata dalla tua stessa prontezza nel tradire te stessa. Dove hai imparato a sostituire l’orgoglio con la vergogna? Pensi alla tua famiglia giù a Hong Kong e quasi li vedi osservarti con delusione.

La risata di Jack ti risveglia dai tuoi rimorsi e ti riporta al tavolo rotondo del ristorante Hei La Moon, nella Chinatown di Boston. Stanno stuzzicando le zampe di gallina. E tu ti perdoni il tuo tradimento temporaneo, perché ti ha fatta sentire sicura.

Il volto del coronavirus

Dall’inizio della pandemia, i ristoranti cinesi in occidente hanno subìto un brutto colpo: non solo per la chiusura dell’industria della ristorazione, ma anche per la nuova spirale di violenza anti-asiatica. Questa violenza ha come presupposto il mito che gli asiatici siano un monolite, e che questo monolite sia responsabile del Covid-19.

In Oregon, le attività a gestione asiatica sono state prese di mira, vandalizzate, razziate. A San Francisco l’immigrata thailandese Vicha Ratanapakdee è stata brutalmente e fatalmente aggredita lo scorso febbraio. Nella metropolitana di New York, due anziane donne asiatiche sono state prese a colpi in testa e Noel Quintana, un sessantunenne americano-filippino, è stato ferito al volto con un taglierino.

Nel quartiere Chinatown di Londra, una panetteria è stata imbrattata di vernice nera, e sempre nel centro di Londra uno studente ventitreenne di Singapore è stato picchiato mentre gli urlavano «non vogliamo il tuo coronavirus nel nostro paese».

Anche un docente cinese all’Università di Southampton è stato picchiato. A Parigi un gruppo di cittadini giapponese è stato aggredito con l’acido. Ad Atlanta, sei dipendenti di un centro massaggi sono state uccise a colpi di pistola in un assalto armato. Tutto quest’anno, tutto nel 2021. E l’elenco continua.

I media occidentali hanno reso gli asiatici dell’est e del sudest il vero e proprio volto del coronavirus, grazie all’inutile e fuorviante insistenza a usare immagini di orientali abbinate a notizie sulla pandemia. Come a dire: «Ecco la rappresentazione che stavate chiedendo».

Una certa narrativa sul coronavirus (al quale spesso Donald Trump si è riferito usando i termini «Kung Flu» o «il virus cinese») ha riacceso stereotipi vecchi cent’anni persino sul cibo asiatico – e quindi, sugli asiatici in generale – che sarebbe sporco, infetto, malsano, stravagante e anormale.

Una narrazione pubblica porta, più o meno inconsciamente, ad accettare un sentire comune come una verità. Ma la narrazione secondo cui i cinesi mangia-pipistrelli siano i responsabili della pandemia non tiene conto del fatto che gli animali “esotici” non fanno parte della comune dieta degli abitanti della Cina, né di tutti gli emigrati cinesi nel mondo, e che la storia del consumo di carne di vario genere di molti paesi occidentali non è poi così differente da quella cinese.

Quindi quando diciamo che il cibo ha il potere di unire, che tipo di unione ci immaginiamo esattamente? Ci stiamo dimenticando che anche nella discriminazione c’è unità, come un senso collettivo di “noi contro loro”? Del buon cibo può sconfiggere il razzismo? Il classismo? Il sessismo? Oppure assaggiare cibo di un’altra cultura è soltanto una finestra temporanea e superficiale, che ci consente di superare per un momento la nostra comfort-zone ma solo per la nostra momentanea soddisfazione?

Il cibo ha radici in una comune umanità, come strumento per comprendere e apprezzare a fondo le nostre differenze, oppure è solo un’altra arma che imbracciamo per confermare i nostri pregiudizi nei confronti degli altri? Come possiamo proteggerci dall’interiorizzazione di quei pregiudizi quando, a volte, è solo un mezzo di sopravvivenza?

La sindrome da ristorante cinese

Foto Pixabay

La reputazione del gms (glutammato monosodico) è impregnata di razzismo. Il gms è stato inventato dal chimico giapponese Kikunae Ikeda nel 1908 e commercializzato nei decenni successivi con il marchio Ajinomoto, in Cina come negli Stati Uniti. Il prodotto ha avuto addirittura più successo in America che in Cina, dove era visto come il simbolo del minaccioso imperialismo Giapponese.

Negli anni Cinquanta l’uso del gms si era diffuso in tutta l’Asia; e in America lo potevi trovare non solo nei ristoranti, ma anche nei cereali, nei pasti pronti, nelle verdure surgelate, nei condimenti, nel cibo per bambini e nelle lattine di zuppa. Il gms non costava nulla e aggiungeva un sacco di umami ai piatti senza carne. Ecco perché è stato così popolare, prima di non esserlo più.

L’Atto di esclusione cinese del 1882, che proibiva l’ingresso di qualunque lavoratore cinese negli Stati Uniti, è stato revocato nel 1943. Ciò ha portato a un graduale incremento del numero di ristoranti cinesi in America, che al tempo servivano principalmente versioni americane, o edulcorate, di piatti della tradizione cantonese. L’allentamento delle norme sull’immigrazione nel 1965 ha portato a un incremento del flusso migratorio anche da altre parti della Cina, come dal Sichuan, Shanghai e dall’Hunan, e di conseguenza all’arrivo del loro cibo.

Tre giorni dopo il primo d’aprile del 1968, il New England journal of medicine pubblicava una lettera del Dr Robert Ho Man Kwok, della National biomedical research foundation del Maryland. La lettera cominciava così: «Per diversi anni da quando mi trovo in questo paese ho sofferto di una strana sindrome ogni volta che mangiavo in un ristorante cinese».

La “sindrome” descritta dal Dr Robert Ho Man Kwok contemplava un misto di affaticamento, mal di testa e «intorpidimento del collo, che gradualmente si propaga alle braccia e alla schiena», con i primi sintomi che comparivano dai quindici ai venti minuti dopo il primo boccone.

Dopo aver elencato e gradualmente eliminato gli altri ingredienti d’uso comune nella cucina cinese dalle possibili cause dei suoi sintomi, concludeva: «Altri hanno suggerito che potrebbe essere causata dal glutammato monosodico che viene usato come condimento in grande quantità nei ristoranti cinesi».

Nelle settimane successive, lo stesso giornale ha pubblicato molte altre lettere che, senza nessuna prova scientifica, contribuivano alla rapida diffusione del chiacchiericcio sulla “sindrome da ristorante cinese”. Titoli di giornale razzisti come «Il cibo cinese ti fa impazzire? Il gms è il sospettato numero 1», «La sbobba cinese stordisce qualcuno» e «A Honk Kong adesso si mangiano cani e serpenti», hanno propagato la disinformazione come un incendio in un bosco.

Per difendersi, i ristoratori cinesi fecero a gara per apporre enormi adesivi con scritto «NO GMS» sulle vetrine e sui menù, nonostante un’ampia e dettagliata ricerca scientifica non avesse trovato alcuna relazione tra l’assunzione di glutammato monosodico e la cosiddetta “sindrome”.

Nel frattempo le zuppe in lattina della Campbell’s, che pure contenevano gms, venivano risparmiate da questa nuova fobia. Però certo, diversamente dal cibo sino-americano, le zuppe Campbell’s apparivano molto più “bianche” e statunitensi.

«Sai da cos’è provocata la sindrome da ristorante cinese? Dal razzismo», disse il grande chef Anthony Bourdain in un episodio del 2016 del suo Parts Unknown.

Il peso delle parole

1926 U.S. Magazine Campbell's Vegetable Soups Advert Date: 1926

In un episodio del podcast This American Life, la produttrice Lily Sullivan rivela uno strano aggiornamento sul mito della sindrome del ristorante cinese: un chirurgo in pensione, il Dr. Howard Steel, si era fatto avanti affermando di essere l’autore della lettera del Dr Robert Ho Man Kwok. Affermava di aver scritto la lettera dopo che un suo amico medico scommise con lui che un chirurgo ortopedico come Steel avrebbe potuto scrivere una lettera senza nessun senso logico e vedersela pubblicata sul New England journal of medicine.

Diceva anche che il nome Ho Man Kwok fosse un gioco di parole con “human crock” (fesso umano, ndt), che il cibo cinese non era che un pretesto per la sua lettera e che non si immaginava minimamente il danno lungo decenni che sarebbe derivato. Un bianco che infama i ristoranti cinesi con una yellow face verbale per un pesce d’aprile tardivo. Che ridere… (Un bianco che infama i ristoranti cinesi facendosi passare per un muso giallo, come un pesce d’aprile postumo. Che ridere…).

Ma la trama ha un’altra svolta. Continuando a indagare sulle affermazioni del Dr Steel, la produttrice Sullivan assieme al giornalista Michael Blanding e la professoressa Jennifer LeMesurier trovarono strano che fosse effettivamente esistito un vero Dr Robert Ho Man Kwok e che avesse lavorato davvero presso la National biomedical research foundation. Contattarono i figli di Ho, che confermarono orgogliosamente che il padre scrisse di suo pugno la lettera. Contattarono pure la figlia del Dr Steel, che era convinta che la confessione del padre fosse soltanto una burla.

È possibile che il Dr Robert Ho Man Kwok, un ricercatore e immigrato cinese, abbia scritto questa lettera con una reale preoccupazione per gli effetti collaterali del gms? È possibile che i suoi dubbi piantassero le radici in un razzismo interiorizzato, e nutriti dalla paura e diffidenza che l’America negli anni Sessanta provava per tutto ciò che non conosceva? Questa lettera era allora un modo di prendere le distanze dagli altri immigrati cinesi “sporchi, pericolosi, strambi, stranieri”? Era forse il suo modo di sentirsi al sicuro? Un atto di assimilazione, di sopravvivenza? Quali che fossero le intenzioni, i ristoranti cinesi e asiatici in generale ne hanno sofferto.

Il dizionario americano Merriam Webster ha corretto la sua definizione di “sindrome da ristorante cinese”, che durava dagli anni Sessanta, soltanto nel 2020 e solo in seguito a un’istanza presentata dal marchio produttore di glutammato monosodico Ajinomoto.

Ci vogliono sessant’anni perché gli autori di un vocabolario si rendano conto del peso delle parole? La grande scrittura e il razzismo non si sono mai esclusi a vicenda.

«Ci ha offerto una tonnellata di nidi d’uccello; e piccole salsicce in fila, di cui avremmo potuto ingurgitarne diversi metri se avessimo scelto di provare, ma sospettavamo che ogni fila potesse contenere la carcassa di un topo, e quindi rifiutammo», così Mark Twain descriveva la sua visita a Chinatown nel 1864.

Lo sguardo bianco

22/01/20 Milano, Milano Via Sarpi: nella foto La Ravioleria Sarpi

Forse non sapremo mai chi sia stato il vero autore della lettera. Il razzismo tuttavia esiste da secoli prima del Dr Ho e del Dr Steel e continuerà a esistere fintanto che esisteranno sistemi di supremazia bianca. Gli enormi cartelli «No gms» sono ancora appesi alle vetrine dei ristoranti a Chinatown e persino dei ristoranti in Asia. Il torpore, l’affaticamento e le palpitazioni del razzismo resistono con violenza, infestando generazioni, irradiandosi gradualmente verso il resto del mondo per poi tornare a casa.

«Non mangiare al ristorante troppo spesso, qui usano un sacco di glutammato», mi diceva mio padre ogni volta che tornavo a Honk Kong, «diversamente che in America. Ormai sarai abituata a cibo molto più salutare».

Crescendo a Honk Kong, ero circondata dallo stesso mito del gms – ugualmente pericoloso – soltanto senza lo slogan di “sindrome da ristorante cinese”. Un piccolo numero di ristoranti dichiara di servire cibo «senza gms aggiunto», quasi tutti in quartieri dove ci sono più immigrati occidentali. Nonostante il glutammato non fosse così demonizzato a Honk Kong, era comunque largamente riconosciuto come un ingrediente dannoso.

La disinformazione occidentale, percepita come una sorta di conoscenza superiore, ha cambiato per sempre l’opinione pubblica sul gms. Il razzismo oltrepassa i confini, e può essere facilmente esportato e importato proprio come un ingrediente, se non di più.

In mezzo all’attuale caos e confusione riguardo l’identità culturale e politica di Honk Kong, il pericolo di idealizzare il passato coloniale è forte. È lo stesso pericolo che tempo fa mi aveva convinto che la bellezza e l’orgoglio erano riservati a facce e corpi bianchi, e non a me. È lo stesso pericolo che una volta mi spinse a mentire, in una classe di ragazze inglesi, su quale lingua parlassi in casa mia. Sono cresciuta guardandomi in un falso specchio, interiorizzando il violento riflesso dello sguardo bianco. («The white gaze» è un’espressione usata per descrivere la sensazione provata dalle persone non-bianche di doversi sempre rivolgere a un osservatore bianco o comunque occidentale, ndt).

Nel 2013 Phyo Arbidans, lo chef resident del The Myanmar Times’, tornando in Myanmar dopo aver vissuto in Australia, rigurgitò tutti i falsi miti occidentali sul gms in un articolo sul cibo industriale: «Alcuni degli effetti collaterali del glutammato includono mal di testa, nausea, stordimento, battito cardiaco accelerato o irregolare, rush cutanei e acufeni».

Nel 2014, la food writer vietnamita-californiana Lien Hoang ha dato seguito alle accuse di Arbidans in un pezzo per Asia Life Magazine, affermando che i vietnamiti avevano addirittura sviluppato una resistenza al glutammato, e che «lì negli Stati Uniti c’è molta più agitazione per il gms presente nelle zuppe, nella carne industriale e nelle verdure inscatolate. E ovviamente nel cibo cinese (come in quello vietnamita), cosa che ha ulteriormente contribuito alla cattiva fama di quella cucina».

È questa entustiasta prontezza ad accettare e glorificare gli stereotipi occidentali sul cibo asiatico che dà loro il permesso di “sbiancarlo” e imbastardirlo. Il nostro cibo viene preso dalle nostre mani “sporche” e ripulito; banalmente omogeneizzato per il profitto; colonizzato più volte nel tempo: cooptato, deriso, cancellato, e alla fine ci hanno manipolati.

«Se un piatto non è mai stato mangiato o re-immaginato da un bianco, esiste davvero?», si chiede la critica gastronomica Soleil Ho. Dal razzismo sistemico a quello interiorizzato, da una lettera d’opinione su un giornale medico a una recensione su Yelp, lo sguardo bianco emana diktat oppure viene servito.

La grammatica dell’amore

05/02/2019 Milano, Capodanno cinese, un ristorante

Ma il cibo ha a che fare con la sopravvivenza. La resilienza. La comunità. La cura. Il cibo è la grammatica dell’amore di mia nonna. La mole di lavoro necessaria a livello globale per smantellare i sistemi di supremazia bianca non deve oscurare le tante ragioni che abbiamo per celebrare il nostro cibo e le nostre storie.

Chef come David Chang di Momofuku, Lucas Sin di Junzi Kitchen, Eric Sze di 886 e artisti e scrittori come Eda Yu e Gabrielle Widjaja di Ingrained hanno ampliato e approfondito il discorso sul cibo asiatico, e si sono anche mobilitati per raccogliere fondi e consapevolezza per i crimini d’odio nei confronti degli asiatici americani e degli isolani del Pacifico, come con la campagna #EnoughIsEnough e il progetto Protect our elders.

Nella sala da pranzo di mia nonna, il centrotavola gira mettendo in mostra i suoi piatti migliori. Fermo davanti a me il piatto di maiale in agrodolce. Riempio la mia ciotola di riso con i colori del piatto che sembrano un semaforo e ne divoro voracemente la maggior parte.

Alla tv dicono che c’è stata un’altra aggressione anti-asiatica, stavolta a Boston, una signora anziana. Impugno alla perfezione le mie bacchette, mangio alla perfezione il mio cibo. Mangio con la grata consapevolezza che mia nonna non è un’immigrata in occidente. Mangio pensando alle nonne e ai nonni sparsi in tutte le Chinatown del mondo, sperando di poterli proteggere meglio di come ho provato a proteggermi quella sera nella Chinatown di Boston. E mangio senza immaginare di avere un pubblico che mi guarda. Mia nonna non cucina per lo sguardo bianco.

Il pezzo è tratto da Pit, magazine indipendente con le radici nel cibo e nel fuoco. Ogni numero racconta storie gastronomiche da tutto il mondo attraverso persone, tradizioni, tecniche e ingredienti.

© Riproduzione riservata