Il momento di mettere un argine. Nel mondo deformato attraverso la lente dei social il calcio mostra una sofferenza speciale e i suoi protagonisti cominciano a non starci più. Da Thierry Henry a Gareth Southgate, da Cesare Prandelli a Gareth Bale, con distinte motivazioni e diversi toni, si alza il coro di ribellione contro i Napalm 51 del pallone. Cioè i volenterosi produttori di odio, insulti, notizie false e ricostruzioni diffamatorie. Tutto materiale che in forma di parola tossica viaggia con un ritmo da contagio più veloce di una pandemia. Con l'aggressione verbale che si converte in regola unica d'ingaggio. E con certe 'versioni alternative' dei fatti che in un istante diventano verità credute, e infine senso comune, grazie al meccanismo della condivisione crossmediale di massa.

Tra Facebook e WhatsApp, tra Twitter e Telegram, un'immagine di dubbia originalità o un audio di sconosciuta provenienza diventano fonti di verità oggettivata, e l'oggettivazione viene dalla forza del meccanismo a palla di neve: crescendo macina numeri e guadagna forza di convincimento, si autolegittima, sdogana un vocabolario e infine conquista legittimazione per procedimento.

A ritrovarsi vittime sono sempre più i personaggi del mondo del calcio, cui troppo tardi tocca scoprire l'impossibilità della disintermediazione. Che è un meccanismo fallace per almeno due motivi. Primo, perché nulla ha a che fare col mitizzato rapporto diretto col proprio (?) pubblico, essendo piuttosto soltanto l'esposizione personale su una piattaforma globale e in posizione da bersaglio immobile. Secondo, perché in ultima analisi un intermediario rimane in campo, potentissimo e inafferrabile, con pretesa di irresponsabilità.

Questo intermediario è la stessa piattaforma social, coi suoi meccanismi di comunicazione istantanea e le sue (lasche) regole di controllo e moderazione. Parliamo di colossi globali in costante espansione, che devono la propria fortuna alla possibilità concessa agli utenti di trasformare in asset l'espressività personale, declinata anche nelle sue forme estreme. L'odio in rete è quota essenziale per il Pil di questi colossi, un'irrinunciabile killer app rispetto alla quale i periodici annunci di restrizione delle policy aziendali in materia di moderazione costituiscono la chiusura del ciclo perfetto di produzione intra moenia: i cattivi e i buoni, il male e la medicina, il disordine e l'ordine, tutto quanto inserito nelle proprie catene di montaggio.

Di questo complesso militare-industriale che si regge anche sull'odio diventano bersaglio sempre più frequente i personaggi del mondo del calcio: atleti in attività o ex, allenatori, dirigenti. Attaccati se sbagliano ma anche se fanno buone cose. Attaccati a prescindere. Un dramma collettivo che nei giorni a cavallo fra la scorsa settimana e l'attuale si è consumato in quattro scene.

Thierry Henry

L'ex attaccante della nazionale francese ha indicato il colpevole senza stare a girarci intorno. Il suo tweet del 26 marzo recita: «Ciao ragazzi, da domani mattina mi cancello dai social media fino a che la gente che li amministra non sarà capace di gestirli con lo stesso vigore e la stessa inflessibilità che usa contro chi viola il copyright». Accusa precisa non soltanto nei confronti di chi governa i social, ma anche delle sue priorità quanto a gestione delle regole: i gesti d’odio vengono considerati meno gravi della condivisione di un video musicale.

A ulteriore motivazione della propria scelta, l'ex Titi ha scritto: «L'enorme quantità di razzismo, bullismo e conseguente abuso psicologico sugli individui è troppo tossico perché lo si possa ignorare. Ci DEVE essere qualche grado di controllabilità. È troppo facile creare un profilo, usarlo per bullizzare e molestare qualcuno rimanendo comunque anonimi. Finché tutto ciò non cambierà, disattivo i miei account da tutte le piattaforme. Spero che le cose cambino presto».

Henry ha preso molto sul serio il ruolo di testimonial contro gli abusi da social, con particolare riferimento a quelli di stampo razzista. Tanto che dal momento in cui ha comunicato la decisione è stato chiamato a esternare ulteriormente sul tema. L'ultimo passaggio è stato lunedì 29 marzo durante BBC Newsnight. Per lui i social sono ormai «roba tossica» e lo ripete ogni volta che ne ha occasione.

Gareth Southgate

L'ex difensore della nazionale inglese, passato a esserne il commissario tecnico da novembre del 2016, è uno che non ha timore di esternare opinioni. Anche quando rischiano di essere impopolari, come quella che ha portato a perorare la vaccinazione dei calciatori professionisti in quanto categoria a rischio.

Sull'onda delle esternazioni di Thierry Henry, anche Southgate ha detto la sua sul tema. E pur usando toni più pacati ne ha estremizzato il messaggio, perché a suo giudizio i calciatori dovrebbero TUTTI ritirarsi dai social. Dopo avere affermato di essere uscito dai social nel 2013, in coincidenza con la nomina a commissario tecnico della nazionale Under 21, ha dichiarato: «Penso che se parlaste con qualsiasi allenatore in questo paese, sono sicuro che la più grande preoccupazione di ciascuno sia che dopo una partita i calciatori, appena negli spogliatoi, si mettono a consultare freneticamente il telefono («are scrolling through their phones»), e si tratta di un momento di grande vulnerabilità se hanno appena giocato una partita, e sono stanchi e affaticati».

Anziché infliggervi tutto ciò chiamatevi fuori, è il messaggio di Southgate. Che rimarrà inascoltato.

Cesare Prandelli

Martedì 23 marzo, due giorni dopo la gara persa in casa contro il Milan, il tecnico della Fiorentina rassegna le dimissioni. Affida le motivazioni della decisione a una lettera pubblica da cui traspare una grande sofferenza personale prima che professionale. Non gli basta questo, né l'essere un monumento del recente passato viola. Perché nei giorni che seguono un'incontrollata macchina del fango prende a far circolare le versione più contorte sui “veri” motivi della sua rinuncia alla panchina.

Circolano registrazioni vocali che pretendono di fornire l'interpretazione autentica dei fatti. E a partire da questo frammento di “verità” i social si infiammano colpendo chiunque, compreso Prandelli. Che si trova costretto a scrivere un altro comunicato pubblico nella giornata di domenica 28 marzo, per smentire certe versioni e soprattutto per esternare il proprio disgusto verso i “leoni da tastiera”. Mortificante per tutti che un uomo in quelle condizioni d'animo, bisognoso di nulla più che rinchiudersi nel silenzio, sia stato costretto a un'ulteriore uscita pubblica soltanto per lavarsi degli schizzi di fango. Purtroppo è successo.

Gareth Bale

L'attaccante gallese del Tottenham Hotspur è intervenuto dopo gli abusi razzisti che hanno colpito due compagni di nazionale, Rabbi Matondo e Ben Cabango. I fatti sono avvenuti dopo la gara amichevole giocata sabato 27 marzo e vinta 1-0 dal Galles contro il Messico. In particolare, Matondo ha condiviso alcuni commenti razzisti scritti nel suo account Instagram, lamentando che il social continuasse a lasciar fare senza intervenire.

Soltanto dopo la denuncia dei fatti, e l'avvio delle indagini da parte della polizia gallese, gli account degli hater sono stati sospesi. Ma secondo Bale, il più rappresentativo fra i calciatori gallesi, non può bastare. Per questo egli ha preso posizione, sostenendo che non ci si debba limitare a tirarsi fuori dai social, ma che piuttosto bisogna boicottarli. Prospettiva quasi impossibile da realizzare, specie se si pensa a quanto i profili social siano diventati strumenti essenziali per i calciatori (e gli sportivi) di maggior impatto comunicativo e pubblicitario. Ma rimane la presa di posizione, premessa per un atteggiamento più esigente in materia di ecologia comunicativa.

Responsabilità sociale

Quattro casi nel giro di una settimana. E si tratta soltanto di quelli maggiormente clamorosi, poiché se si fa una ricerca appena più approfondita se ne trovano altri. Succede ai personaggi del mondo del calcio, che hanno abbastanza voce per farsi ascoltare e forse per questo potrebbero dare una mano a cambiare le cose. Per convinzione o per forza, tocca loro prendersi in carico un pezzo della propria responsabilità sociale. Non è poco. E sarebbe un delitto se a questa nuova sensibilità non venisse dato un seguito. Chi governa il calcio li aiuti. Chi governa i social faccia almeno finta di ascoltarli.

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