*Abbiamo usato i nomi (di fantasia) Zahra e Amir perché così il protagonista di questa storia ha scelto di raccontarsi


Amir si gratta la barba e ordina un espresso in una libreria bistrot romana. Viene da Teheran. Ma in Iran si chiamava Zahra. Portava il velo. Non aveva la voce bassa e profonda con cui invece oggi a 23 anni racconta la sua storia di fuga, trasformazione del corpo, viaggio alla ricerca di sé. «Non mi sono mai sentito femmina. In una foto ho 3 anni, i pantaloni, gli occhiali da sole e un piccolo elicottero tra le mani». A 7 anni legge sul documento il sesso di nascita. «Chiesi a mia madre se potevo cambiarlo».

Zahra da bambina si veste maglietta e pantaloni, gioca a calcio, ma quando inizia la pubertà, le pressioni del corpo e della società si fanno più stringenti: «Non ero a mio agio con me stessa. Pensavo di avere un problema, di essere malata». A 13 anni Zahra frequenta una scuola femminile, in Iran il sistema educativo prevede la divisione di genere. Indossa il velo e l’uniforme: «La società iraniana non permette a una ragazza di vestirsi da maschio. Non si trattava semplicemente di togliere il velo. Io avevo un problema più grande: non sapevo come chiamarmi».

Crescere in un paese patriarcale

«I miei amici mi dissero che potevo essere trans. Non avevo mai sentito quella parola». Durante l’adolescenza, nei giochi di ruolo Zahra fa la parte dell’uomo. Chiede di farsi chiamare Amir. «La società iraniana era molto patriarcale, oggi è un po’ cambiata. Per una donna era inappropriato correre per le strade, ridere, urlare».

Zahra voleva andare allo stadio, ma alle donne ancora oggi è proibito: «Alcune ragazze si sono travestite da maschi per andare a vedere le partite, ma è molto rischioso».

Durante il Muharram, il mese sacro del capodanno islamico, per le strade si vedono solo uomini, gli unici che possono partecipare alle celebrazioni. I ragazzi battono il proprio corpo con delle fruste, gesti simbolici che inscenano le autoflagellazioni. Zahra in quanto donna è costretta a guardare gli eventi dal bordo del marciapiede: «Non mi sentivo musulmano, ma volevo partecipare a quel rito. Volevo fare le cose permesse solo gli uomini». Solo una volta nel Muharram del 2018, Zahra, 16 anni, toglie il velo, ha i capelli cortissimi. Si veste da maschio e va in strada. «Bisogna correre dei rischi grandi per essere se stessi».

Amir sfila un libro da uno scaffale della libreria bistrot romana: «Questo dovrebbero leggerlo tutti per conoscere l’Iran e la storia dei prigionieri politici». Tra le mani ha Lui di Ashkan Khatibi, il manifesto politico di uno dei più importanti attori e registi iraniani in esilio in Italia. «La vita di Khatibi cambia dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza uccisa nel 2022 perché non portava correttamente l’hijab. La mia cambia con le proteste del 2019 che segnano per me una svolta».

A Teheran nel 2019 i manifestanti insorgono contro il governo che per fermare le proteste blocca l’accesso a internet e spara sui manifestanti dai tetti dei palazzi. «Raccoglievano i corpi dei manifestanti morti, li portavano via per nascondere il numero reale delle vittime». Amir ha 17 anni: «Da quel momento comincio a odiare il governo e a lottare contro il regime».

Intanto Zahra a scuola ha le sue storie. «Si sapeva che ero trans. Lo ero nella testa e non ancora nel corpo. Mi facevo chiamare Amir». Un giorno, incontra la psicologa della scuola: «Mi chiese: vuoi diventare uomo solo perché come donna ti senti oppressa? Iniziai una lunga ricerca dentro me stesso. Non era per le proibizioni, mi ero sempre sentita un uomo».

Accettarlo per la famiglia è stata dura: «Mia madre vedeva che non mi comportavo come una ragazza. Non mi truccavo, non mi depilavo, avevo i capelli corti. Ha provato a cambiarmi perché sapeva che la società iraniana non mi avrebbe accettato». A 19 anni Zahra ha frequenti attacchi di panico e di isteria mentre dorme. La madre la porta in ospedale. Ogni volta i dottori la sottopongono a controlli: «Dicevano sempre che stavo bene: era il mio stato mentale. Stavo vivendo una pressione troppo forte. Stavo combattendo. Mia madre capì che mi doveva accettare».

Essere trans in Iran

In Iran l’omosessualità è punita con reclusione, fustigazione o pena di morte: «Non puoi avere un’identità non binaria. Devi essere maschio o femmina». La transessualità invece è prevista dalla legge, da una fatwa di Khomeini del 1979. «Fu Maryam Molkara, la prima donna trans iraniana, a convincere l’Ayatollah Khomeini che l’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso non era contrario alla legge islamica».

In Iran, però, i transessuali sono fortemente stigmatizzati. Spesso subiscono violenze e sono ai margini della società. «È il giudice assegnato dalla Corte a decidere se puoi iniziare la transizione, se puoi toglierti il velo e vestirti da uomo e se puoi avere i nuovi documenti».

Alcuni giudici sono misogini e transfobici e possono bloccare il percorso. «È un percorso frustrante, doloroso, richiede molto tempo. Un tempo in cui prima di ricevere il documento da uomo devi aver completato tutto il percorso di transizione e ti trovi a iniziare la terapia ormonale, avere la barba e la voce da uomo e i documenti da donna e sei in un Paese che non accetta le identità non binarie. Ti trattano come se fossi malato, come un essere disgustoso. Per questo sono scappato». Inoltre, per avere i documenti è necessario avere il certificato relativo al servizio militare indispensabile poi per trovare lavoro. «Come uomo trans non sei obbligato a svolgere il servizio militare. Ma se non lo hai svolto, ti viene assegnata sul documento la categoria di esonero relativa ai problemi mentali. Quale posto di lavoro assume una persona che ha problemi mentali?».

La fuga da Teheran

A 19 anni Zahra è schiacciata da una doppia pressione, sociale e fisica. «Il corpo è un’oppressione se non è il corpo che vuoi. Ero depresso, stanco di combattere. Non parlavo più con nessuno. Avrei rinunciato all’università». In quel momento sua madre capisce e fa di tutto per farla andare via dall’Iran. Zahra va in aeroporto con uno zaino e la foto dei tre anni in tasca. Ha il velo e la madre al suo fianco. Hanno entrambe il permesso di uscire dal Paese come studentesse internazionali. Zahra studia Lettere alla Sapienza di Roma, sua madre frequenta un dottorato in nanotecnologie. «Fuggire da Teheran è stato come scappare da una prigione». A Roma inizia la terapia ormonale. La voce di Zahra cambia e diventa quella di Amir, anche il volto si trasforma. «Quando fai la transizione, cambia il tuo modo di vedere la società e come la società vede te. Cambiando il mio corpo, ho cambiato anche il mondo intorno a me».

La rivoluzione del persiano

Oggi Amir ha completato il percorso di transizione. «Non sono mai tornato a Teheran, ma in futuro mi piacerebbe fare avanti e indietro dall’Iran». È fuggito come Zahra. Vuole tornarci come Amir. Oggi Amir dall’Italia porta avanti la sua battaglia con una tesi di laurea sulla riscoperta della storia antica da parte delle nuove generazioni iraniane: «Il governo fa studiare solo la storia contemporanea islamica. Le nuove generazioni hanno il diritto di conoscere le proprie origini». E porta avanti anche la difesa della lingua iraniana antica, il persiano. «Il persiano è la cosa più bella dell’essere iraniano. È poetico ed è gender neutral. Il governo spinge verso un maggiore uso delle parole arabe, la lingua del corano, al posto di quelle persiane. Usare di più il persiano, normalizzarne il suo uso originario, diventa una rivoluzione, la nostra resistenza».

Amir sfila dalla tasca della giacca la foto dei tre anni con gli occhiali da sole. Con l’elicottero che già annunciava la fuga, un volare alto. Con i pantaloni che dicevano al mondo: sono maschio, guardatemi. Chiamatemi Amir.

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