Il 19 gennaio del 2020 l’esistenza di una infezione dovuta a un nuovo coronavirus era ormai nota, ma il mondo non sembrava preoccuparsene più di tanto. Soprattutto negli Stati Uniti, dove sui giornali teneva banco la discussione sull’impeachment di Donald Trump e qualche attenzione veniva riservata anche ai festeggiamenti per la giornata nazionale del popcorn (ebbene sì: esiste).

Del resto allora in occidente le ragioni di immediato timore non sembravano moltissime. A Wuhan si erano registrati ufficialmente 62 casi in tutto e nonostante due vittime sembrava che quella malattia ancora priva di un nome avesse poche capacità di diffondersi. Eppure il virus stava facendo le valige, o meglio le stava facendo un uomo che nei rapporti scientifici sarebbe stato poi indicato come “CA1” o “Paziente 9” anche se di fatto sarebbe stato il quarto paziente noto negli Stati Uniti e il primo a Los Angeles.

L'inizio a Wuhan

Torniamo dunque a Wuhan, e a quelle valige. Servivano per una piccola vacanza che l’uomo, un commerciante di 38 anni, sognava da tempo di fare con la moglie e il bimbo piccolo ai Caraibi. Inutile dire che si trasformerà in un incubo. Appena arrivato in Messico compaiono malesseri e arriva anche una telefonata che annuncia la morte della suocera, a Wuhan.

La famiglia decide mestamente di tornare in patria, durante lo scalo a Los Angeles però appare chiaro che l’uomo sta molto male. Verrà ricoverato nella città americana, fino alla guarigione. Per il virus è una delle prime false partenze alla volta di nuove frontiere, perché non risulta che in quell’occasione sia riuscito a raggiungere altre persone, persino la moglie e il figlio del commerciante risulteranno negativi.

Probabilmente a fermarlo è stata l’estrema diligenza del protagonista della vicenda, il quale anche prima di manifestare qualsiasi sintomo aveva adottato scrupolosamente le precauzioni consigliate all’epoca, compresa quella allora pochissimo seguita di indossare la mascherina durante il volo aereo.

Tutta la storia è stata ricostruita ad agosto dal Los Angeles Times ed è una delle tante tessere che si stanno mettendo a posto nel complicato mosaico che descrive il modo in cui il virus SARS-CoV-2 ha conquistato il pianeta: la modalità assomiglia a quella di una alluvione, cominciata con poche gocce rade e continuata poi come un disastro. Sul come finirà, ancora non abbiamo idea: è già abbastanza un’impresa capire dove siamo arrivati, ma proviamo a farlo cominciando dalla fine; a che punto siamo con i farmaci?

I farmaci

Sotto questo aspetto, l’abbiamo visto, il virus ci ha colti del tutto impreparati. Ma era facile, perché di fatto, non disponiamo di un antivirale efficace ad ampio spettro.

Quello che ci manca è qualcosa che funzioni contro i virus in modo analogo a come gli antibiotici funzionano contro i batteri. Questa carenza è uno dei motivi principali per cui i grandi nemici di oggi sono soprattutto malattie virali come ebola, Zika, Aids, dengue, influenza, solo per prenderne una manciata.

Al contrario fanno molta meno paura quei batteri che furono i grandi assassini del passato: se la diagnosi arriva in tempo gli antibiotici permettono di affrontare con successo anche infezioni contro le quali non esiste un vaccino come peste, lebbra o sifilide.

È vero che si stanno diffondendo sempre più forme batteriche resistenti agli antibiotici e questo secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità provoca almeno 700.000 vittime all’anno (quasi un terzo delle quali dovute alla sola resistenza da parte del batterio della tubercolosi).

Questa resistenza però riguarda microbi contro i quali ci confrontiamo da tempo mentre se dal mondo naturale emergesse un nuovo batterio molto pericoloso, con altissima probabilità potremmo subito contrastarlo grazie a uno degli antibiotici che già sono disponibili nel nostro arsenale.

Per i virus non è così. Gli antivirali esistenti sono concepiti per scardinare specifici meccanismi del virus che prendono di mira e sono inutili contro virus diversi, allo stesso modo in cui la chiave di un appartamento non serve ad aprirne un altro.

Così, all’inizio dell’epidemia, l’umanità ha disperatamente cercato nell’armadietto dei medicinali disponibili qualcosa che potesse essere utile anche contro il nuovo coronavirus, ma non ne ha estratto niente di davvero risolutivo. Abbiamo visto gradualmente tramontare le speranze destate da un farmaco in uso contro la malaria (l’idrossiclorochina), contro l’HIV, contro l’influenza….

Continua ad essere ritenuto utile ma in modo molto limitato il Remdesivir, che era stato sperimentato contro ebola e l’epatite C. Proprio l’epidemia di Covid19 però ha dato un fortissimo impulso alla ricerca di un antivirale che possa finalmente funzionare contro una gamma di virus diversi.

A riporre fiducia in questa possibilità è in particolare Francesco Stellacci, uno dei ricercatori di punta del Politecnico Federale di Losanna. Quando ho incontrato l’ultima volta questo studioso dai capelli sciolti sulle spalle, un piccolo pizzetto, e l’accento indefinibile di chi ha passato decenni in laboratori di tutto il mondo, era seduto nel suo studio con poggiato sul palmo della mano un oggetto dalle molte facce, del tutto simile ai virus che si vedono disegnati nei libri di biologia.

Con un gesto ormai ripetuto innumerevoli volte di fronte a colleghi, finanziatori e pubblico, Stellacci ha chiuso le dita e sotto la leggera pressione il modellino è praticamente collassato, imploso. Questo, se tutto andrà bene, sarà esattamente l’effetto che il farmaco a cui sta lavorando produrrà sui nostri invisibili nemici: alcune molecole opportunamente disegnate aderiranno con la “testa” alla superficie dell’agente infettivo e poi unendo le “code” lo comprimeranno, distruggendone l’involucro esterno.

A questo punto il patrimonio genetico del virus dovrebbe restare esposto, indifeso e incapace di nuocere. Se le ricerche procederanno nel modo sperato, fra pochi mesi un farmaco basato su questo principio potrebbe iniziare a essere sperimentato sull’uomo. Ma in ogni caso anche altri gruppi di ricercatori lavorano alla messa a punto di un antivirale ad ampio spettro, ad esempio all’Università di Lund, in Svezia. Se anche solo uno di questi studi avrà successo, cambierà per sempre il nostro modo di affrontare gli agenti infettivi. Sperabilmente però per allora avremo già strumenti specifici contro SARS-CoV-2.

Gli anticorpi monoclonali

Moltissime aspettative si fondano sugli anticorpi monoclonali, cioè su anticorpi prodotti in laboratorio e che una volta somministrati si legano al virus. La loro funzione dunque è analoga a quella che svolgerebbero ad esempio anticorpi prodotti dall’organismo in risposta a un vaccino. Un farmaco basato su di essi potrebbe essere offerto ai malati, in modo da aiutarli ad affrontare l’infezione, o anche a scopo profilattico nel caso di persone che sono venute a contatto con qualcuno di contagioso.

A lavorare su anticorpi monoclonali contro Covid19 è fra l’altro Rino Rappuoli, microbiologo e fra i più vulcanici innovatori nel campo dell’immunologia e dello sviluppo di nuovi vaccini. Ai margini degli incontri dell’EuroScience Open Forum, (ESOF 2020) che si è appena concluso a Trieste, Rappuoli si è dimostrato decisamente ottimista sulla possibilità che gli anticorpi monoclonali contro Covid19 ai quali sta lavorando risultino efficaci e del resto la sperimentazione dovrebbe fornire indicazioni decisive entro tre o quattro mesi. La vera ambizione però non è curare chi sta male, magari utilizzando farmaci con inevitabili effetti collaterali, bensì prevenire la malattia. E per questo ci vogliono i vaccini.

I vaccini

Più di ogni altro sviluppo medico, sono stati i vaccini a liberarci della paura delle malattie infettive. Ma i vaccini sono farmaci delicati. Si somministrano a persone sane, quindi devono essere estremamente sicuri e avere effetti collaterali lievi. E poi, non tutte le malattie infettive si prestano ad essere fermate da un vaccino, come dimostra il fatto che fino ad oggi sono risultati vani i tentativi di trovar modo di immunizzarci contro l’Aids, la malaria, e nonostante le aspettative di fatto anche contro la temuta febbre dengue. Le speranze riguardo la possibilità di ottenere un vaccino contro Covid19 oscillano. L’annuncio dell’interruzione (poi rivelatisi temporanea) della sperimentazione sul farmaco in corso di sviluppo da AstraZeneca e dall’Università di Oxford ha raffreddato gli entusiasmi, ma resta il fatto che al momento ci sono circa 200 diversi candidati vaccini in corsa e di questi 37 hanno già raggiunto la fase di sperimentazione sull’uomo.

Sono numeri che esprimono uno sforzo di ricerca e di investimenti gigantesco, e che con tutte le cautele lasciano spazio a un ragionevole ottimismo. La politica potrebbe giocare un ruolo ben diverso, mettendo la salute avanti ogni altra priorità. Lo ha fatto persino in uno dei momenti più cupi della storia recente ed è una vicenda che vale la pena ricordare: si svolge negli anni Cinquanta a cavallo della cortina di ferro.

A quell’epoca il pianeta era diviso in due blocchi che si guardavano in cagnesco, ma avevano un nemico comune: la poliomielite. Contenerla sembrava impossibile e piccoli polmoni di acciaio si allineavano senza fine in giganteschi ambienti, allestiti per aiutare i bimbi che più spesso erano le vittime del contagio.

Nel 1955 viene autorizzato un primo vaccino, realizzato dal medico americano Jonas Salk. Si accende finalmente una luce di speranza. Ma il farmaco presenta alcuni problemi e in particolare il fatto che debba essere dato per iniezione complica la realizzazione di grandi campagne di vaccinazione.

Negli Stati Uniti un altro medico, Albert Sabin, ritiene di avere un’idea migliore e mette a punto un vaccino diverso, somministrabile per bocca. Nel 1957 sarebbe pronto a sperimentarlo, ma il governo americano non è interessato. E allora Sabin si rivolge altrove: guarda verso il blocco sovietico.

Anche lì la poliomielite semina la morte, uccidendo 12.000 persone all’anno. Sabin è un immigrato di origine polacca, parla un po' di russo e non ha difficoltà culturali a interagire con i sovietici, in particolare con Mikhail Petrovich Chumakov, forse il microbiologo e virologo più celebrato del blocco orientale. E a questo punto accade qualcosa di davvero notevole: nel pieno di una competizione scientifica e tecnologica senza esclusione di colpi tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la conquista dello Spazio, gli Stati Uniti autorizzano Sabin a sperimentare il suo vaccino in Urss.

Da parte sovietica in effetti qualche tentennamento c’è ma Chumakov ha un asso nella manica, anzi un numero di telefono: quello di Anastas Mikoyan, responsabile per la salute al Politburo. Chumakov chiama e gli argomenti devono essere stati molto convincenti perché basta una singola conversazione e si parte. Chumakov rende disponibili in pochissimo tempo milioni di dosi del vaccino e queste vengono distribuite con sovietica efficienza. Si va in parallelo, da un lato somministrando le dosi, dall’altro tenendo traccia di eventuali effetti indesiderati, che nessuno ha avuto modo di escludere con studi simili a quelli che oggi consideriamo indispensabili.

Non è previsto il dissenso e del resto forse in questo caso più ancora degli “inviti” da parte del regime, a spingere è la paura della malattia. In pochi mesi, vengono vaccinate 10 milioni di persone, con risultati così buoni da convincere larga parte del mondo ad adottare la formulazione di Sabin. Inclusi gli Stati Uniti, persuasi dal rapporto redatto da una grandissima protagonista dell’epidemiologia, Dorothy Millicent Horstmann.

A oltre sessant’anni di distanza, dal punto di vista della modalità della sperimentazione e della sua sicurezza l’epopea della lotta alla poliomielite in Russia sembra preistoria. Non pare invece che abbiamo fatto particolari progressi nella capacità di distribuire gli eventuali vaccini, se e quando ci saranno. E questo in effetti è un nodo cruciale.

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Chi arriva primo

A livello individuale, una volta accertato che esiste un vaccino dalla provata sicurezza ed efficacia, (quasi) tutti vorremmo essere fra i primi a riceverlo. Egoisticamente la ragione è ovvia ma miope. Perché la grande potenza del vaccino non sta nella sua capacità di liberare il singolo dalla paura della malattia, ma di liberare il mondo dagli effetti nefasti del virus.

A questo scopo, una campagna di vaccinazione dovrebbe essere condotta in maniera strategicamente accurata, considerando eventualmente che il vaccino sarà più efficace su certe persone che su altre (magari a seconda dell’età, o di differenti caratteristiche individuali),  valutando che ci sono gruppi di persone che hanno maggiori probabilità di essere veicolo dell’infezione (e dunque vaccinarle per prime significherebbe spuntare le ali all’agente infettivo), o ancora prendendo in esame il fatto che alcune categorie in caso di contagio rischiano di più.

Sarebbe nell’interesse di tutti che l’arma del vaccino venisse puntata contro il virus in base a priorità di questo tipo, ma invece è fortissimo il timore che alla fine ad avere la precedenza sarà semplicemente chi può pagare di più, almeno nella competizione fra nazioni e in assenza di una Organizzazione Mondiale della Sanità forte e dotata di poteri reali.

Vivere in un mondo dove l’incubo della Covid19 non c’è più, dicevamo, sarebbe interesse di tutti. Questo perché gli effetti di nefasti del virus vanno ben oltre la malattia che causa. I soli danni economici provocati dalla pandemia a oggi sono stimati nell’ordine di migliaia di miliardi di euro e anche questo ha conseguenze letali incluse quelle sulla salute stessa.

È vero che lo sforzo di contrastare l’infezione ha dato uno straordinario impulso alla ricerca biomedica, portando a risultati che troveranno applicazione più a largo spettro di quanto oggi possiamo immaginare. D’altro canto però sono state sottratte risorse essenziali a tutte le altre emergenze sanitarie che ci mettevano in difficoltà da ben prima del 2020, e che non si sono certo dileguate.

La battaglia che la nostra specie sta combattendo per una vita più lunga e più sana assomiglia a un confronto contro le forze oscure nel Signore degli Anelli: la creatura mostruosa in prima linea ora è il nuovo coronavirus, ma alle sue spalle si affollano agenti infettivi e malattie dalle forme diverse, ed è bene che ci teniamo da parte delle energie per loro. Secondo quanto riportato a giugno da The Global Fund, la pandemia ha reso meno efficaci l’85 per cento dei programmi volti ad affrontare l’HIV, il 78 per cento di quelli contro la tubercolosi e il 73 per cento di quelli contro la malaria.

La maggior parte dei problemi si sono registrati nei Paesi più fragili, ma anche le nazioni privilegiate non ne sono risultate indenni. E molto vicino a noi è più volte risuonato l’allarme degli esperti per gli inevitabili ritardi che ci sono stati durante la chiusura nel monitoraggio e nel trattamento di malattie contro le quali non andrebbe mai abbassata la guardia, dai tumori alle malattie cardiovascolari.

L’umanità ha sempre affrontato le epidemie e quello che il nuovo coronavirus ci ha messo di fronte è una sorta di déjà vu a finale aperto. E ora, anche se non avremmo mai voluto sederci al tavolo, giochiamo la nostra partita.

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