Per comprendere la crisi di Walmart in Cina potrebbe bastare un dattero rosso. Nel 2014 il direttore di uno dei tanti Sam’s Club, i negozi al dettaglio presenti in decine di città cinesi e riservati ai soli fidelizzati della catena di distribuzione statunitense, spiegava come questo frutto provenisse dallo Xinjiang, dove la neve era fonte di irrigazione e le lunghe giornate permettevano una maturazione migliore.

Otto anni dopo, trovare un dattero rosso tra gli scaffali è pressoché impossibile. Lo stesso vale per pomodori, meloni Hami, noci, mele, uvetta verde così come tutto il cibo (e non solo) che viene prodotto nella regione. Il motivo è semplice: allo scadere del 2021, il presidente Joe Biden ha firmato l’Uyghur Forced Labor Prevenction Act, con cui ha vietato l’importazione dei beni realizzati nello Xinjiang dalla minoranza musulmana degli uiguri sotto sfruttamento.

Così Walmart si è adeguata alla legge mentre Pechino, che nega qualsiasi sua violazione dei diritti umani nella regione nord occidentale, ha attuato la sua vendetta.

Rispetto dei diritti umani e Covid-19

«Ritirare tutti i prodotti da una regione senza un valido motivo nasconde un'agenda nascosta, dimostra stupidità e miopia e avrà sicuramente le sue conseguenze negative», ha avvertito in una nota la Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del Partito comunista cinese (Ccdi).

Detto fatto: la decisione di Walmart ha scatenato un’ondata di indignazione generale, con i clienti infuriati per non poter più acquistare prodotti dallo Xinjiang che hanno espresso la loro rabbia sui social o annullando gli abbonamenti al Sam’s Club. Un danno economico non da poco per il supermercato numero uno al mondo, che in Cina ha aperto 434 negozi e conta(va) quattro milioni di iscritti, con un giro d’affari almeno da 157 milioni di dollari.

Il boicottaggio è stato sollecitato dal Pcc, non solo filtrando quello che passa online ma anche tramite un’attenta campagna mediatica volta a screditare il grande rivenditore al dettaglio americano. È stata infatti riportata alla luce una vecchia multa da 47.200 dollari, commissionata lo scorso anno dall’amministrazione del Guangdong per via di false recensioni apparse sui prodotti, e un’indagine sulla presunta carne avariata. Lo screditamento, tuttavia, è arrivato anche attraverso le concorrenti.

Come Carrefour, i cui oltre 200 negozi in Cina sono di proprietà di Suning, quando aveva pubblicato sul suo profilo ufficiale di Weibo diverse foto di prodotti in vendita con scritto: «Vengo dallo Xinjiang».

Stretta tra due fuochi, Walmart si ritrova quindi nella posizione di dover rispettare tanto le regole del suo paese, quanto quelle in cui opera. E la Cina, nei piani dell’azienda, è fondamentale. Non solo perché, come accennato, si tratta del secondo mercato estero più prolifico dopo il Messico, ma anche per via dei costi sulle spedizioni delle merci, più bassi rispetto alla media.

Non da ultimo, per la strategia sull’e-commerce che il colosso di Bentonville ha deciso di seguire in Cina. Iniziata dieci anni fa con il rilevamento del 51 per cento dell’azienda cinese Yihaodian, la trasformazione è stata accelerata negli ultimi anni. Specie dalla politica Zero Covid adottata dal presidente Xi Jinping, che ha rappresentato un duro colpo per i negozi di vendita al dettaglio, con le vendite ad aprile che hanno registrato un -11 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021.

Pertanto, se non si può uscire per andare a fare la spesa, è lei a venire a casa. Nei cinque anni prima della pandemia, le vendite di e-commerce in Cina erano aumentate del 32 per cento e ancor di più con l’entrata in vigore delle misure di contenimento del virus, mentre a scendere del 3 per cento ogni anno sono state le vendite al dettaglio.

Numeri che hanno convinto Walmart ad aprirsi al mondo del business online, così come deciso in Brasile, Giappone e Gran Bretagna, stringendo una partnership strategica con JD, il secondo rivenditore in Cina dopo il colosso Alibaba.

Concorrenza spietata

È infatti Jack Ma a fare la voce grossa. Quello che, nonostante il pressing di Pechino, per Forbes rimane il quinto uomo più ricco della Cina, ha esordito nel settore alimentare con Freshippo (detto anche Hema), la catena di supermercati automatizzata che conta più di 200 negozi.

L’obiettivo era proprio quello di ricalcare le orme tracciate da esperti della vendita al dettaglio come i Sam’s Club e lasciarne di nuove. Per il vicepresidente, Zhao Jiayu, il grande vantaggio di Freshippo sta nell’essere «il negozio di appartenenza dei cinesi. L’approvvigionamento locale non solo soddisfa le esigenze dei clienti, ma aiuta anche i commercianti e i contadini in aree remote dal lato dell’offerta».

Compresi quelli dello Xinjiang, si capisce, i cui prodotti sono naturalmente in vendita. Prodotti che possono essere consegnati a casa in minimo mezz’ora e massimo mezza giornata, anche a 30 chilometri di distanza. Un servizio a cui Walmart si ispira, ma l’azienda è ancora indietro nello sviluppo di un e-commerce davvero competitivo e che soddisfi la clientela cinese.

Il vantaggio delle aziende cinesi come Freshippo sta anche nei pochi controlli che ricevono da parte delle autorità, a differenza di quelle straniere che subiscono ispezioni periodiche e ben approfondite.

A iniziare dalle statunitensi, le principali nemiche nella guerra commerciale tra Pechino e Washington. Il fine ultimo è trovare irregolarità tra quelle che non si adeguano alle regole del governo centrale, come ritorsione per le decisioni che vengono prese alla Casa Bianca.

Eppure, malgrado le difficoltà, Walmart non ha alcuna intenzione di abbandonare la Cina. Lo ha dimostrato ipotizzando persino una vendita delle sue quote di minoranza per ristabilire i rapporti con le autorità cinesi, che potrebbero accontentarsi di rivedere il loro dattero rosso esposto sugli scaffali. 

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