Correva l’anno 2010, mese di marzo, quando veniva pubblicato nella Gazzetta ufficiale il decreto che regolava la creazione di un deposito unico per lo per lo stoccaggio dei rifiuti nucleari italiani. «La proposta di Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, con l'ordine della idoneità delle aree identificate sulla base delle caratteristiche tecniche e socio-ambientali, il progetto preliminare e la documentazione», si leggeva nel testo, «sono tempestivamente pubblicati sul sito Internet della Sogin».

Mai scelta di un avverbio fu più improvvida: undici anni e una sentenza della corte di giustizia europea dopo, ieri la carta delle aree potenzialmente idonee per lo stoccaggio di 90 mila metri cubi di scorie nucleari è stata finalmente pubblicata. E già si sono levate le voci, queste sì tempestive, degli enti locali pronti a dire no: il presidente della regione Puglia Michele Emiliano dice che il deposito non si farà mai in Puglia, il deputato del Pd Astorre dice che il viterbese «non è idoneo», la Lega difende Altamura, Forza Italia Toscana chiede al presidente Giani di dire che non si farà mai in Maremma, l’assessore al ciclo dei rifiuti de Lazio Massimiliano Valeriani ha dichiarato il Lazio «indisponibile», la regione Basilicata ha convocato una riunione urgente per opporre il suo rifiuto, il presidente della Sardegna Solinas ha definito la possibilità di un deposito in Sardegna «l’ennesimo oltraggio».

La mappa

L'attuale mappa individua addirittura 67 zone in sette regioni: 22 nel Lazio, diciassette tra Puglia e Basilicata, quattordici in Sardegna, otto in Piemonte, quattro in Sicilia e due in Toscana. Si cerca un sit solo e per avere la lista reale bisognerà aspettare almeno un anno. Quella attuale include anche aree sismiche e sulle isole e quindi con collegamenti difficili e divide le aree continentali tra più e meno favorevoli.

I criteri valutati sono la distanza di meno di undici chilometri dalla rete ferroviaria e comunque meno di tredici chilometri da fare su strada, la distanza di almeno tre chilometri da un centro abitato e assenza di edifici nell’area, la percentuale al di sotto del 25 per cento di terreno dedicato ad agricoltura biologica o di origine controllata e l’assenza di aree di riserva naturale.

Le località che rispondono a tre criteri su quattro e quindi sono considerate le migliori sono solo dodici: cinque sono in provincia di Viterbo, cinque in provincia di Alessandria e due in provincia di Torino. Appena dietro arrivano le altre undici aree continentali: una in provincia di Alessandria, due in Toscana, in provincia di Siena e Grosseto, due a Viterbo, due tra Bari e Matera, due tra Taranto e Matera, una a Bari e una a Matera.

Tutte e 67 le zone però rispettano le linee guida sulla sicurezza stilate nel 2014, ormai sette anni fa dall’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale. «L’ordine di idoneità», si legge sui documenti, «verrà utilizzato soltanto nel caso in cui dovessero essere avanzate più candidature alla localizzazione del deposito nazionale da parte di enti Locali». Il percorso è solo all’inizio e per arrivare qui sono serviti anni.

L’attesa del nulla osta

La carta delle aree prevista dal decreto del 2010 è stata stilata da Sogin nel gennaio 2015. A luglio 2015 i due ministeri responsabili, quello dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente avevano promesso una procedura «articolata ma trasparente» nella quale «verranno coinvolti regioni ed enti locali interessati, cittadini e comunità scientifica». Il nulla osta dei due dicasteri per attivare quella procedura però è arrivato solo il 30 dicembre. Solo ora dunque parte il confronto sul modello del débat public – dibattito pubblico francese: un processo decisionale che per le infrastrutture strategiche prevede il coinvolgimento dei territori.

Enti locali, comuni, ma anche organizzazioni non governative hanno due mesi di tempo per inviare osservazioni sulle centinaia di documenti pubblicati sul sito depositonazionale.it. Greenpeace ha già lanciato un appello ai cittadini perché la consultazione pubblica sia partecipata anche dal basso. Dopo quattro mesi ci sarà un seminario nazionale, per discutere ancora tutti gli aspetti, tra cui quelli che potrebbero fare realmente la differenza: i benefici economici che potrebbero ricevere gli enti locali che accettano il deposito. Poi passeranno altri novanta giorni prima che la Sogin scriva la nuova carta di idoneità, che poi dovrà avere l’autorizzazione dell’Isin, l’ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e infine essere approvata per decreto. Un altro anno se va bene.

Ignorare la realtà

I ritardi ci sono costati a luglio del 2019 una sentenza della Corte di giustizia Ue per inadempienza che la Commissione europea per ora non ha ancora trasformato in sanzione. E nel frattempo le scorie italiane non sono sparite. Quelle derivanti dalle centrali nucleari dismesse le abbiamo inviate soprattutto all'estero pagando contratti con società britanniche e francesi. Ma restano anche otto depositi temporanei in Italia. La stragrande maggioranza del materiale radioattivo esaurito, quello rimosso da un nocciolo di un reattore, per l’ultimo rapporto dell’Isin, è in Piemonte (per l’83 per cento). In particolare nel comune di Saluggia, in una area vicino al fiume Dora Baltea che non è nemmeno idrologicamente adatta. Ma poi ci sono altri rifiuti che continuiamo a produrre: il Lazio spicca con il 30 per cento del volume totale.

Nel deposito nazionale dovrebbero essere stoccati in maniera sicura sia i rifiuti a bassa attività che quelli a medio alta: i primi perdono la radioattività dopo 300 anni, i secondi dopo migliaia. Il costo dell’impianto sarà, secondo Sogin, attorno a i 900 milioni.

L’accordo con Arera per le tariffe da mettere in bolletta, secondo l’ultimo bilancio, non è ancora stato trovato. Ma l’azienda spiega che un ritardo nella costruzione del deposito nazionale «rappresenterebbe un costo che, per i soli oneri di esercizio e manutenzione, oscilla tra un milione e 4 milioni di euro per ciascun sito in cui è presente è un deposito, senza tener conto dei costi dell’eventuale realizzazione di nuovi depositi temporanei».

 

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