Dietro le proteste che gli adulti non capiscono. Storia del Collettivo K1

«Fuori dalla lotta il mondo è meno bello». Francesco ha 19 anni, una bocciatura alle spalle e il coraggio di stare in prima linea alle manifestazioni. È uno dei volti del Collettivo K1 di Firenze, nato tra i corridoi del liceo Machiavelli Capponi. Uno dei più attivi in città. «Provare a trasformare quello che ci circonda è meglio della vita che ci viene offerta: una vita di ruoli rigidi, esami, giudizi, sfruttamenti e indifferenza, anche davanti a un genocidio». Accanto a lui, Leila – nome di fantasia scelto da lei per questa intervista perché ancora minorenne – sorride e lo ascolta. Quando parla sembra scegliere con cura ogni parola: «I miei genitori hanno scoperto che manifestavo il 23 febbraio 2023, quando ci sono state le cariche della polizia e le manganellate». Si ferma. [Missing Caption][Missing Credit] «Si sono spaventati. Vengo da una famiglia di migranti e non è facile. I miei genitori hanno paura per tanti motivi e devo tenere nascoste delle cose. Anche se essendo arabi anche per loro la Palestina è importante. Però mi hanno detto di stare attenta, di non farlo. Ma la prima lotta che fai non è sempre quella con i tuoi genitori? Rivolta Gen Z in Madagascar: «Democrazia da conquistare» Incontri e contaminazioni Leila e Francesco non si considerano simboli e soprattutto non sentono di essere la «generazione che sta svegliando il mondo». Ripetono che la loro mobilitazione non se la sono inventata e non nasce dal nulla: è il risultato di incontri e contaminazioni. Delle lotte del Collettivo di fabbrica Gkn e dei Cobas, del sostegno di alcuni docenti, di lezioni di storia che hanno guardato oltre una schematica preparazione per la maturità e i libri di testo, di relatori che hanno parlato di Palestina durante l’occupazione del 2023, quando chiedevano una scuola meno oppressiva. [Missing Caption][Missing Credit] Durante l’occupazione avevano chiesto di ridurre la pressione scolastica, di cambiare il regolamento interno. Allora il tema era la scuola, poi è arrivato il 7 ottobre. I video dei bombardamenti su Instagram, la sensazione che stesse accadendo qualcosa di ancora più inaccettabile. «Da allora il genocidio palestinese è diventato la priorità», racconta Francesco. «Abbiamo iniziato a manifestare durante le ricreazioni, poi ci siamo uniti alle proteste del Collettivo Gkn. Ma in quel periodo lottavi per il diritto di lottare. Alcuni professori ci contestavano, altri ci dicevano di nascosto che erano con noi ma senza schierarsi o appoggiarsi». Gen Z e ceti popolari, la società del rischio spaventa prima di tutto loro La «paura» degli adulti Leila parla di una parte adulta della scuola che, dice, «non riusciva a uscire dalla routine dei voti e del programma». Alcuni docenti minacciavano sanzioni agli studenti più giovani che volevano unirsi alle proteste. «Poi qualcosa è cambiato: alcuni insegnanti hanno cominciato a sostenerci, ma non tutti. Proprio ieri una professoressa ha fatto un parallelismo assurdo dicendomi che non ha senso essere contro l’occupazione della Palestina e allo stesso tempo occupare la scuola». Sia Francesco sia Leila si sono chiesti perché per molti adulti sia così difficile capire, Leila ha la sua idea netta e precisa: «Forse hanno paura, non sanno dove li porterà il cambiamento. O forse non hanno ancora capito l’inutilità del silenzio». Francesco invece sogna di tornare a scuola dopo il diploma, sorride: «Non per insegnare. Anche come custode. Mi basterebbe solo stare a scuola con i ragazzi». Leila ride, ma nelle loro risposte c’è un po’ del senso del loro occupare scuole e piazze: ovvero restare nei luoghi dove si può ancora immaginare di cambiare qualcosa. [Missing Caption][Missing Credit] Quando parlano del cessate il fuoco, entrambi tornano seri. «Le nostre proteste hanno pochi rischi: una denuncia, qualche manganellata. Non è una frase fatta ma rispetto a quello che succede in Palestina è niente. Anche subito dopo il cessate il fuoco hanno ucciso Saleh Al-Jaafrawi, un giornalista giovanissimo, poco più grande di noi», dice Francesco. Leila annuisce: «Forse è un cessate il fuoco, anche se io ho tanti dubbi. Ma soprattutto non deve essere un cessate la lotta. Ci penso spesso: a una me stessa in Palestina che si sveglia come me ogni mattina, con la mia età, i miei stessi progetti. Solo che io mi sveglio e vengo qui a scuola, lei invece forse pensa che quello potrebbe essere l’ultimo giorno. O l’ultimo per qualcuno a cui vuole bene». Segni di resistenza Non esistono fotografie di una intera generazione, semmai zoom ravvicinati, in questo caso tra le migliaia di giovani che in tutta Italia stanno manifestando. Uno sguardo che ricorda, come scriveva Boris Vian in La schiuma dei giorni, quanto sia facile come individui dare giudizi a priori su tutto, e quanto difficile comprendere le masse, dove invece si trovano le storie, le ragioni e i desideri di molti. Storie come quelle di Leila e Francesco, che fanno parte di un movimento che continua a fare resistenza, dentro e fuori la scuola. In questi tempi in cui tutti stanno cercando di capire gli effetti reali del cessate il fuoco l’occupazione del liceo Machiavelli Capponi si è conclusa ma a Firenze ha dato il via ad altre forme di protesta e presidio che hanno coinvolto i licei Gramsci e Michelangelo e l’Alberghiero Saffi. Il Collettivo K1 continua a essere presente nelle piazze e nei cortei, a fianco degli altri movimenti e degli altri gruppi di lotta. «Mia mamma – dice Leila prima di andarsene – dopo quasi due anni di divieti e arrabbiature, mi ha detto che queste manifestazioni non sono inutili. Che stanno cambiando le cose. Che saranno la testimonianza della mia lotta e della mia resistenza quando sarò adulta. Della nostra resistenza».