Against all odds, contro ogni previsione, Novak Djokovic è libero e l’Australia, il paese che è stato faro della disciplina militaresca contro il Covid, ha mostrato in queste ore il suo ventre molle, di sistema più formale che non sostanziale, più contorto e fallace che non virtuosamente complesso.

È bastato un giocatore di tennis – anche se il più forte del mondo – per mandare in cortocircuito la cosiddetta macchina perfetta del controllo delle frontiere, dei contagi e dei tracciamenti ad personam di cui gli isolani, e soprattutto i loro rappresentanti, andavano così fieri.
Prima dell’udienza di fronte al giudice Anthony Kelly, che nella notte tra domenica e lunedì ha ribaltato la decisione del governo federale, tutto deponeva a favore delle autorità che avevano prima concesso e poi ritirato il visto a Novak Djokovic, numero uno del mondo e già nove volte campione all’Open d’Australia.

La vicenda del serbo si è dipanata ora dopo ora, con alcuni punti fermi: prima di volare da Belgrado a Melbourne, Djokovic aveva effettivamente richiesto alle autorità statali del Victoria un’esenzione dalla vaccinazione perché fresco di guarigione dal Covid, ottenendola. Alle autorità di confine, prima di imbarcarsi aveva chiesto un visto di ingresso temporaneo, e gli era stato rilasciato.
Lo scandalo urbi et orbi si è scatenato per una sola ragione, non tecnica: il lasciapassare al campione serbo è stato vissuto come una beffa da milioni di australiani reclusi per mesi e impossibilitati a tornare in patria.

L’onda di indignazione generale ha costretto i politici australiani all’azione e l’unico provvedimento ritenuto plausibile è stato il ritiro del visto all’atterraggio, con annesso conflitto di competenze giocato sulla pubblica piazza, tra palline steccate, doppi falli assortiti e frasi apodittiche del primo ministro Scott Morrison, secondo cui «nessuno è al di sopra della legge».

La difesa

Djokovic ha trascorso quasi tutta la settimana appena conclusa ristretto in una struttura per persone dallo status giuridico pendente, mentre i suoi avvocati preparavano l’udienza per appellarsi contro la decisione di ricacciarlo indietro. Assunta con la motivazione, piuttosto generica, di non aver soddisfatto i requisiti di sicurezza necessari per muoversi liberamente.

Nel corso del dibattito di fronte al giudice Kelly sono emersi dettagli interessanti. Per esempio, che Djokovic ha dichiarato di non essersi mai vaccinato. Che si è sottoposto a un test molecolare a Belgrado nella mattinata del 16 dicembre, e la sera stessa ha ottenuto il responso: positivo.

Non era materia per il giudice australiano, ma esiste documentazione fotografica che attesta la presenza fisica di Djokovic nella sua accademia il giorno 17, mentre premiava alcuni ragazzi. Eppure, in Serbia, le regole vigenti – online sul sito del ministero della Salute – obbligano alla mascherina all’aperto e al coperto e, soprattutto, chi è positivo alla quarantena.

Semmai questa sarebbe materia per le istituzioni serbe ma, a giudicare dalle esternazioni da ultras del premier Aleksandar Vucic e di alcuni suoi ministri, che hanno festeggiato il loro campione liberato come se avesse vinto una guerra personale contro l’Australia, c’è da giurare che non ci saranno reprimende.  

I legali del tennista hanno insistito sia sulla regolarità delle procedure di ingresso presentate dal loro assistito, sia su un trattamento «manifestamente ingiusto» riservatogli dalle autorità di confine. Ed è su questi due aspetti che il giudice ha fondato la sua decisione: non solo Djokovic «non avrebbe potuto fare di più» per mettersi in pari con la normativa, ma l’ordinanza statuisce che è stato effettivamente trattato in maniera scorretta al suo arrivo: non gli è stato concesso il tempo per raccapezzarsi, non ha potuto consultare il suo team né mettersi in contatto con gli avvocati, gli è stata messa una fretta ingiustificata nel fornire spiegazioni utili alla decisione sul suo visto.

È finita?

Sulla ricostruzione dei fatti, i rappresentanti del ministero degli Interni guidato da Karen Andrews hanno ammesso gli addebiti: la libertà di revocare un visto deve rimanere nei binari di un trattamento onesto e corretto.

Ma non si sono arresi: hanno fatto sapere che il collega dell’Immigrazione, il ministro Alex Hawke, ha ancora una carta da giocare, la (seconda) cancellazione del visto d’imperio, con annesso divieto di ingresso in Australia per tre anni.

Ma è un’arma talmente sproporzionata, rispetto al caso concreto, che John Alexander, ex stella del tennis australiano, un tempo avversario di Adriano Panatta e oggi avvocato nonché parlamentare liberale, a dispetto della militanza nello stesso partito del premier ha scritto che «quel potere in capo al ministro non può essere usato contro Djokovic, perché esiste per togliere dalla circolazione criminali pericolosi o persone che possano insidiare la salute pubblica».

Che Djokovic possa essere un terrorista o un untore, per quanta antipatia si possa nutrire per le sue convinzioni, è argomento effettivamente insostenibile e suscettibile di creare un precedente abnorme in un continente retto dal common law, cioè dall’efficacia delle sentenze come precedenti di legge cui attenersi. 

«Vittima di torture»

Mentre Novak Djokovic si dirigeva verso lo stadio di Melbourne per un primo allenamento, testimoniato da una fotografia in compagnia del suo staff tecnico e da un generico messaggio di ringraziamento ai sostenitori, la sua famiglia ha convocato un’altra conferenza stampa dai toni mistico celebrativi nel corso della quale padre, madre e uno dei fratelli hanno espresso la loro soddisfazione per «la vittoria più bella di tutte» del loro congiunto, hanno chiesto un intervento della regina Elisabetta come massima autorità del Commonwealth (sic) e hanno definito Novak «vittima di torture e leader del mondo libero».

Quando qualcuno si è permesso di chiedere come mai, da positivo al Covid, Djokovic avesse presenziato a eventi in pubblico invece di starsene isolato in casa come prescritto da norme e buon senso, hanno staccato il collegamento.

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