Situata all’interno della Mezzaluna fertile, la Siria è uno dei siti agricoli più antichi del mondo e la sua posizione lungo la via della seta le ha permesso di sviluppare una delle cucine più varie e raffinate. La guerra degli ultimi anni, però, ha devastato il territorio, costretto gli agricoltori a spostarsi, cancellato colture uniche nel loro genere e portato sull’orlo dell’estinzione ingredienti tradizionali e conoscenze culinarie. Beffa crudele, il cibo è stato una delle cause della guerra. Tra il 2007 e il 2010, il paese ha vissuto una delle peggiori carestie che la storia abbia registrato.

Acquedotti, laghi e fiumi erano in secca a causa degli obiettivi troppo ambiziosi fissati dal governo in materia di produzione di grano. Gli effetti a catena colpirono duramente le comunità rurali, allontanando dalla terra un milione di siriani che si spostarono nelle città, finendo marginalizzati e in povertà.

Le tensioni si acuirono fino alle manifestazioni di piazza della primavera del 2011, a cui rispose una brutale repressione da parte del governo di Bashar al Assad. Ebbe inizio la guerra civile. A dieci anni di distanza, le stime delle Nazioni Unite parlano di 700.000 persone uccise, mentre cinque milioni di siriani sono fuggiti dal paese e vivono come profughi in Turchia, Giordania, Libano ed Egitto; altri sei milioni sono rifugiati interni. Il 90 per cento dei sopravvissuti in Siria viene ritenuto in condizioni di insicurezza alimentare, situazione non favorita dalla vertiginosa ascesa del prezzo delle derrate (in Siria i prezzi sono raddoppiati tra il 2019 e il 2020).

Nel 2015, il mondo aveva assistito inorridito all’attacco sferrato contro alcuni siti siriani patrimonio dell’umanità. I militanti dell’Isis assaltarono l’antica città-oasi di Palmira, nel deserto siriano. Fecero saltare in aria il tempio di Bel, risalente a 2000 anni fa, distruggendo quelli che erano stati alcuni dei monumenti romani meglio conservati al mondo. Meno visibile, d’altra parte, è stata la distruzione del sistema alimentare del paese, che avrà conseguenze a lungo termine per i siriani anche dopo la fine della guerra. Trovandosi all’interno o in prossimità di aree agricole, molte delle linee del fronte hanno provocato un alto numero di vittime tra le comunità di contadini, oltre alla confisca delle terre da parte dei contendenti (...).

Una risorsa da mettere in salvo

Mentre si verificava questa serie di eventi, una piccola équipe di ricercatori situata nei pressi di Aleppo lavorava dietro le quinte, nel tentativo disperato di salvare una risorsa alimentare preziosa non solo per la Siria ma per il mondo intero. Quaranta chilometri a ovest di Aleppo, nella cittadina di Tel Hadya, si trovava una delle più importanti raccolte di semi mondiali, inserita in una rete di dodici siti in posizioni strategiche in tutto il mondo, ognuno dedicato a un tipo diverso di alimento.

La banca dei semi di Tel Hadya era gestita dall’International Centre for Agricultural Research in the Dry Areas (Icarda) e conservava la più ampia gamma di frumento, orzo, lenticchie e ceci del mondo, coprendo in pratica 12.000 anni di storia agricola. Questa risorsa genetica era importante per il futuro di tutta la nostra alimentazione, dato che conteneva semi con caratteristiche di resistenza a siccità e malattie. Ora era in una zona di guerra, a forte rischio.

Nel 2012, un gruppo di miliziani aveva attaccato il centro di ricerca per rubare dei veicoli. In seguito, con l’escalation del conflitto, aveva rapito alcuni scienziati. Eppure, gli addetti rimasti hanno continuato a seguire la collezione, trovando chissà come gasolio sufficiente a mantenere in funzione i generatori per tenere la temperatura interna abbastanza bassa da conservare i semi. Proprio come i colleghi di Nikolaj Vavilov avevano rischiato la vita per proteggere i semi durante l’assedio di Leningrado, cosí l’équipe dell’icarda si era prefissata di assicurarsi che i 150 000 campioni conservati a Tel Hadya fossero al sicuro.

A un certo punto, gli scienziati sono stati costretti a venire a patti con i ribelli: i miliziani hanno acconsentito a proteggere la banca dei semi e a tenere in funzione i generatori se, in cambio, gli scienziati avessero fornito loro il cibo coltivato negli orti sperimentali del centro. L’accordo è rimasto valido fino alla primavera del 2016, quando il regime di Assad ha bombardato Aleppo e le città vicine, compresa Tel Hadya. I ricercatori sapevano di non avere altra scelta che spostare i semi per metterli al sicuro. Hanno caricato un camion con tutte le scatole di semi che poteva contenere e si sono diretti a sud, fuggendo oltreconfine, in Libano.

Fortunatamente, anni dopo, sono riusciti a costituire un duplicato di gran parte della collezione, inviando i «doppioni» dei semi alle Svalbard, nella banca scavata nel ghiaccio dell’Artico. L’Icarda ha poi costituito una nuova banca dei semi in Libano, e i semi duplicati sono andati a sostituire quel che era andato perduto in Siria. Con il Libano a sua volta in difficoltà per le crisi politiche ed economiche interne, questi semi si sono ritrovati di nuovo in una posizione instabile. A rendere ancor piú tragica la situazione è il fatto che i semi salvati dalla banca nazionale irachena di Abu Ghraib, distrutta durante la seconda guerra del Golfo, erano stati aggiunti alla collezione siriana. All’epoca, era sembrato il luogo piú sicuro in cui conservarli nella regione.

Semi fondamentali

La collezione di Tel Hadya rappresentava più della mera genetica delle piante: conteneva semi autoctoni importanti per i siriani. Un seme che faceva parte di questa storia culturale era lo Hourani, un grano duro trovato presso i contadini nei dintorni di Homs.

A causa delle sue proprietà straordinarie, lo Hourani era ideale per creare squisiti pasticcini di semolino, tra cui uno chiamato halawet el-jibn. I pasticceri lo preparavano creando un impasto a cui aggiungevano sciroppo di zucchero e majdouli (un formaggio salato e filaccioso che dona elasticità alla pastella). Poi, secondo la ricetta, si riempiono quadratini di pasta con una crema detta qoshta (o ashta) prima di arrotolarli, tagliarli in piccoli pezzi, coprirli di sciroppo di petali di rosa e cospargerli di pistacchi tritati.

Lo halawet el-jibn appartiene a una grande famiglia di dolci diffusi in tutto il medio oriente il più noto dei quali è la baklava, anch’essa a base di semolino. Le origini di questi dolci possono essere ricondotte all’Impero romano; poi furono influenzati dalla cucina bizantina e dalla successiva diffusione delle tecniche di cottura in forno in tutto l’Impero ottomano. In Siria, questi dolci, insieme ad altri simili, divennero parte del collante sociale: venivano cucinati in casa o acquistati nelle pasticcerie (istituzioni amatissime e molto famose, acclamate per le loro creazioni) e scambiati con amici e familiari. La guerra ha messo una violenta fine a gran parte di questa tradizione.

Un attacco al cuore della Siria

Perché preoccuparsi delle sorti di un dolce durante una guerra? Se si inizia a decostruire lo halawet el-jibn fino ai suoi singoli ingredienti, si comincia a comprendere la portata del danno inflitto al sistema alimentare siriano. Prendiamo in considerazione il frumento Hourani, che come il Kavılca della Turchia orientale si è adattato al terreno della Siria nel corso di millenni, e ora è andato perduto perché tantissimi agricoltori sono fuggiti dal paese. Pensiamo anche alla collezione di Tel Hadya, dove ne erano stati salvati i semi, ora lontana da Aleppo. Nel frattempo, migliaia di ettari di campi di pistacchio sono stati distrutti, con gli alberi presi di mira dai combattenti, le fattorie bombardate, fatte saltare in aria e incendiate, tutto allo scopo di provocare il massimo dei danni alle comunità rurali.

Ma questi attacchi colpiscono al cuore anche l’identità siriana. Nel I secolo, il pistacchio era un elemento così essenziale dell’agricoltura e della cucina siriana che Plinio considerava la Siria il paese d’origine di questo frutto.

Il pistacchio in realtà proveniva da aree più a est, in Iran e Afghanistan, ma per i Romani era chiaro che il suo uso culinario fosse stato perfezionato nelle cucine di Aleppo, Damasco e Homs. La Siria divenne una delle principali fonti di pistacchi per il medio oriente e l’Europa (...).

Prima della guerra, nei terreni agricoli intorno alla cittadina di Morek, poco a nord di Homs, venivano raccolte 40 000 tonnellate di pistacchi all’anno, circa metà di tutti quelli prodotti in Siria. Ma dopo il 2011, con l’inizio della guerra, coltivare il pistacchio qui è diventato troppo pericoloso. Per la disperazione, migliaia di alberi sono stati abbattuti e usati come combustibile e legna da ardere (...).

Un alimento può facilmente essere in pericolo se la fonte dei suoi ingredienti, per esempio una fattoria, viene distrutta. Ma se il luogo in cui quel piatto viene preparato e lavorato è sotto attacco, insieme alle persone che hanno le capacità di cucinarlo, allora quell’alimento diventa a rischio d’estinzione.

In Siria, le pasticcerie vennero prese di mira anche mentre le persone erano in coda all’esterno per comprare pane e dolci. Una che ha dovuto chiudere a causa del conflitto è la Salloura di Aleppo. Per 150 anni, questo negozio a gestione familiare è stato famoso per la sua offerta di dolci, compreso lo halawet el jibn, il dolce di formaggio e pistacchi citato prima.

Dopo due anni di conflitto, mentre i combattimenti si intensificavano e zucchero, farina e pistacchi scarseggiavano, la famiglia chiuse bottega e fuggì in Turchia arrivando fino a Istanbul, come il mezzo milione di profughi siriani già presenti nel paese. Nel quartiere di Aksaray, ora noto come «Piccola Siria», la famiglia Salloura ricreò il negozio che aveva lasciato ad Aleppo, iniziando a preparare dolci tradizionali, tra cui lo halawet el jibn.

Su un gruppo WhatsApp intitolato «Siriani in esilio», i profughi di diverse parti del mondo condividono fotografie dei dolci proposti dalla pasticceria Salloura e postano commenti. «Mi state riportando a casa», ha scritto un siriano che ora vive in Nordamerica. «Come un fuoco, guardarli mi brucia e mi ferisce».

Nell’estate del 2020, i coltivatori di pistacchio siriani hanno iniziato a tornare nei frutteti. Molti campi non venivano toccati da otto anni: alcuni alberi si erano rinsecchiti, con i rami avvizziti. C’erano anche le mine antiuomo da aggirare. Gli altri aspetti della cultura siriana che hanno reso celebre lo halawet el jibn però, sono ancora sparsi per tutto il mondo: la banca dei semi con la varietà di frumento «perfetta» resta in Libano, i pasticceri, la famiglia Salloura, sono ancora nella loro casa provvisoria a Istanbul, e i clienti che servivano un tempo, come milioni di siriani, sono profughi oltremare. Viva nel cuore e nella mente dei siriani in tutto il mondo, la cultura gastronomica siriana resisterà finché non giungerà la pace e le persone non potranno tornare a casa.

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