È ora di cena. La stazione Termini di Roma appare svuotata dalla frenesia quotidiana, piena soltanto di gente comune che cammina in cerca di qualcosa. Non si direbbe affatto che siano lì in attesa dei volontari dell’associazione don Bosco che, come ogni venerdì sera, portano loro da mangiare. Un ragazzo con delle grosse cuffie bluethoot cammina svelto: a guardarlo di sfuggita non si direbbe mai che vive per strada. Invece saluta la zia e si mettono in fila.

Giuseppe ha superato i 50 anni. È un omone sorridente, indossa una polo arancione con una spilla di Che Guevara all’altezza del taschino. Dice di essere un uomo libero, partito alla volta di Roma dalla Calabria. Il suo accento lo conferma chiaramente. Evita di spiegare cosa gli sia successo in passato, dissimula la tristezza che ha nello sguardo improvvisando dei quiz. Conosce a memoria le frasi dei film di De Sica, Troisi e Rossellini e chiede a chi gli sta intorno di indovinare i titoli delle pellicole da cui trae le citazioni. Poi si sbilancia: «Lavoravo in radio, si sente dalla voce che ho», dice, «ma non mi pagavano, e ho lasciato perdere. Andrò via anche da Roma: c’è troppo “paese” anche qui».

Poco più in là c’è la signora Iva. Una donna di 74 anni, arrivata in Italia trent’anni fa dalla Bulgaria. È ben vestita e curata. Chiede se è rimasto qualcosa per lei e per suo figlio, ma è arrivata tardi, si accontenterà dei biscotti per la colazione. Lei una casa ce l’ha, a Centocelle. Vive con suo figlio di 50 anni, che per «alzare qualcosina» dà una mano a una signora del quartiere, spiega. Iva ha fatto per una vita la badante, accudendo gli anziani, in nero. La pensione non ce l’ha. «In qualche modo si fa» ed è comunque contenta che adesso qualcuno «si prende cura dei poveri come noi».

Solo a piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione romana, ci sono più di trenta persone. Prendono tutto quello che i volontari hanno da offrire, poi si rimettono in fila, sperando che avanzi cibo per un secondo giro. C’è anche chi passa per due, tre volte.

L’Avvocato è uno di questi. Il suo nome non lo conosce nessuno. Si scusa per essere stato lontano per più di un anno «ma con il Covid-19 me so dovuto ripara’». Chiede subito una busta, poi un’altra, riesce a riempirle entrambe, tra dolci, pasta e succhi di frutta.

Un altro volontario si assicura di distribuire le mascherine chirurgiche, l’Avvocato fa scorta anche di quelle. Poi ringrazia e si allontana. Anche la signora Iva si è allontanata per paura di perdere l’autobus di ritorno verso casa. Giuseppe, invece, continua a proporre quiz di storia, musica e cinema.

Invisibili

Secondo le stime della Fondazione Abbé Pierre e della Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con i senzatetto (Feantsa), nell’Unione europa ci sono circa 700mila senza fissa dimora, con un aumento del 70 per cento negli ultimi dieci anni.

Tuttavia, durante la recente crisi sanitaria, questo numero è fortemente diminuito grazie alle misure di emergenza finalizzate a fornire un riparo ai più fragili. Secondo il rapporto pubblicato dalle due fondazioni, infatti, basterebbe mobilitare meno del 3 per cento delle sovvenzioni previste nel bilancio del Recovery Fund per togliere dalla strada tutti i senzatetto, trovando per loro alloggi dignitosi per un anno intero. Il problema di queste stime è che, nonostante siano riportate nel rapporto del 2020, non vengono aggiornate dal 2015: «È un dato a fisarmonica, che aumenta o decresce a seconda dei periodi e delle condizioni esterne», spiega Caterina Cortese, sociologa e referente per l’area di Analisi e ricerca sulla condizione delle persone senza dimora della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.psd). «In caso di flussi migratori può sembrare che il dato migliori, com’è successo anche nel caso della pandemia. Invece, nell’ultimo anno e mezzo ci sono state persone finite in povertà estrema dopo aver perso il lavoro, che si sono aggiunte a quelle che già c’erano», prosegue Cortese.

In Italia, si calcolano oltre 55mila senzatetto, persone con problemi di salute e disturbi mentali, fragilità relazionali, barriere linguistiche e condizioni di vita precarie che richiedono un approccio di intervento complesso e coordinato tra le diverse realtà territoriali. La Fio.psd si occupa proprio di coordinare i servizi presenti su tutto il territorio, ma, precisa la referente, «i servizi per gli homeless sono solo dei servizi cuscinetto», a fronte di una problematica cronica che affligge da sempre il paese. «Molti italiani sono in strada da oltre quattro anni. A loro si sommano i migranti, arrivati in cerca di lavoro e rimasti incastrati nelle strutture di prima accoglienza in condizioni di povertà; le persone con problemi di salute, a volte anche non certificate, che proprio per questo hanno perso il lavoro; molte donne vittime di trauma», spiega Cortese. Le difficoltà provocate dall’arrivo del Covid-19, dunque, hanno solo reso visibile una problematica che c’era da molto tempo prima. Soprattutto nelle grandi città, dove, come conferma Cortese, è più difficile avere a disposizione alloggi a sufficienza.

Tornare al mondo

A Roma si contano intorno agli 8mila senza fissa dimora. L’obbligo del distanziamento ha comportato una diminuzione dei posti letto disponibili: «Dove prima entravano due letti a castello, quindi quattro persone, se ne possono accogliere due o una soltanto», afferma Augusto D’angelo, responsabile dei servizi per senza fissa dimora della comunità di Sant’Egidio. Loro, come associazione dedita al sostegno dei più vulnerabili, nei mesi di lockdown hanno tolto dalla strada più di un centinaio di persone. «Non ci siamo fermati. Abbiamo iniziato a distribuire i pasti in più zone e abbiamo aperto nuove sedi in tutti i quartieri di Roma». Prima della pandemia, Sant’Egidio era presente a Roma con tre centri di distribuzione alimentare, a giugno 2020 erano diventati 28, perché al diminuire degli alloggi è conseguito un aumento delle persone in strada.

«Siamo riusciti ad aprire diversi dormitori più piccoli in periferia: noi conoscevamo le persone e altri mettevano a disposizione lo spazio», racconta ancora D’Angelo, che aggiunge che grazie alla collaborazione di molti è stato possibile avere ulteriori idee, pur di accogliere persone in difficoltà. Sono infatti partiti diversi progetti di co-housing: «Abbiamo avuto la possibilità di vedere che fra piccoli gruppi di persone si stavano creando dei legami, quindi abbiamo provato a metterli in case condivise», in modo da poter permettere loro di dividere le spese e riuscire a mantenere gli appartamenti con i pochi soldi a disposizione. Molti senzatetto, infatti, hanno accesso al reddito di cittadinanza oppure a piccole pensioni. Calmierando i prezzi degli affitti, per loro si presenta la possibilità di cambiare vita, a partire dall’avere un tetto sopra la testa.

Un’altra iniziativa avviata da Sant’Egidio è l’Accordo del buon samaritano. «Sempre nei mesi del lockdown abbiamo pensato di andare da un albergatore nei pressi della stazione Termini. Gli abbiamo proposto di calmierare i prezzi delle stanze in modo da consentire ai nostri amici senzatetto di avere un riparo, pagando una stanza intorno a 250 uro al mese. Lui ha accettato, ed è stato poi seguito da altri», spiega D’Angelo, che precisa che dopo le chiusure, nessuno è tornato a vivere in strada. Nemmeno gli albergatori hanno ritirato la loro disponibilità: «Molte strutture hanno lasciato a disposizione due, tre stanze a un prezzo più basso per chi dovesse averne bisogno. Hanno deciso di continuare ad aiutare chi ha aiutato loro nel momento più difficile di tutti», prosegue D’Angelo.

Tuttavia, le soluzioni trovate riguardano solo piccoli numeri. Chi è rimasto fuori dai dormitori, dalla Caritas o da altre iniziative intraprese dalle associazioni attive sul territorio si è ritrovato a vivere un dramma. E non per il Covid-19. Fra i senzatetto, infatti, come riporta D’Angelo, i casi di positività sono stati pochissimi, perché queste persone vivevano già da prima un distanziamento obbligato. «Si sono ritrovati a non avere più un riferimento: la maggior parte vive nelle stazioni, dove trova tutto quello di cui ha bisogno, raccogliendo anche un po’ di soldi dai passanti», il lockdown ha tolto loro anche questa minima forma di socialità.

L’incertezza del futuro

Basta ascoltare chi vive in strada per notare subito che nel suo lessico il futuro non è contemplato. «La loro priorità ogni mattina è cosa e dove mangiare, dove dormire, dove lavarsi», spiega Caterina Cortese della Fio.psd. Tuttavia, le soluzioni trovate nei mesi più duri dell’emergenza sanitaria hanno provato che un cambiamento duraturo è possibile. «Il dormitorio deve rappresentare una risposta emergenziale, in piccola scala e sul medio periodo. Poi bisogna fare accoglienza a lungo termine, con appartamenti, case condivise, housing first», precisa. Il nodo è trovare case accessibili.

L’housing first è uno degli approcci d’intervento più recenti e innovativi nel contrasto alla marginalità sociale. Si tratta di un modello sviluppato dal Sam Tsemberis, newyorkese, negli anni Novanta. Dal 2014 iniziano i primi progetti sperimentali anche in Italia. In pratica, le persone che vivono da anni in strada entrano in contatto con i servizi sociali territoriali che offrono loro la possibilità di entrare in un appartamento, godendo inoltre dell’accompagnamento di un gruppo di operatori sociali. «Oggi ci sono almeno 50 comuni che hanno investito in un progetto di housing first e e hanno aperto almeno un appartamento», afferma Cortese. Anche in questo caso, le difficoltà maggiori si riscontrano nelle metropoli. «Su Roma è difficile trovare gli appartamenti, così come a Milano, mentre il numero dei senza dimora è molto alto». In queste città, infatti, almeno per ora si è optato per soluzioni su larga scala, che includano più persone possibili, seppur in modo precario. «La difficoltà deriva dai prezzi del mercato immobiliare, che sono inaccessibili. È vero che si possono usare altre soluzioni, come le strutture del demanio pubblico, magari piccole case in cui si ricavano più appartamenti per una o due persone, oppure si può pensare allo sblocco dei beni confiscati alla mafia, ma raramente questi sono pronti all’uso», spiega ancora Cortese, la quale aggiunge che «chi riesce a entrare in progetti housing, acquisisce una dignità di vita: quando si ha una casa e un accompagnamento, chi è in età lavorativa riesce anche a trovare lavoro. Altri si ricongiungono con i figli, perché in molti casi prevale la vergogna di dover dire loro che si è finiti per strada e decidono di tagliare i rapporti. Avere una casa è l’inizio di una nuova vita», conclude. Stando ai dati contenuti in tre diverse ricerche pubblicate sul sito della Fio.psd, infatti, in 8 casi su 10 la persona che esce dall’isolamento, stabilizza il proprio benessere psico-fisico, si prende cura della propria salute e si impegna in attività lavorative.

Lo scorso 28 luglio, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha approvato il Piano nazionale per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà per gli anni 2021-2023, destinando inoltre 490 milioni di euro del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) in progetti e servizi per persone senza dimora, inclusi progetti di housing. Starà alle amministrazioni, però, decidere in che modo spenderli, migliorando la vita di migliaia di cittadini.

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