La confusione è massima. Un anno fa il fronte era chiaramente delineato: da un lato l’avanzare del virus, dall’altro un contrasto vigoroso ed efficace, al quale concorrevano i progressi della ricerca e della sperimentazione, le misure dei governi e la disciplinata risposta sociale, non priva di determinazione e coraggio. Oggi è diverso.

Cresce l’incertezza, gravi preoccupazioni hanno indebolito le nostre speranze d’esserne fuori, reso incerto il prossimo futuro e permanente lo stato di emergenza, per ora legislativamente esteso fino a marzo.

Perciò vorremmo che le posizioni degli esperti diventassero sapere comune, ispirassero apertamente le scelte dei nostri governanti e fossero sempre dovutamente comunicate dai media.

Gli esperti concordano sul fatto che la variante Omicron non è un nuovo malanno che ci è caduto sul capo, ma lo stadio di un processo naturale; che Omicron non è un nomignolo casuale, ma è il più recente isolato della sequenza alfabetica iniziata con alfa, beta, gamma, tutte varianti dello stesso virus, e che i vaccini offrono protezione durevole – anche se declinante – contro le conseguenze più gravi della malattia.

Ancora: se domani nuove varianti risultassero più letali avrebbero scarsa diffusione, mentre quelle più contagiose sarebbero meno letali, come è il caso di Omicron e come è proprio del processo di selezione del materiale genetico.

Nei paesi avanzati la lotta al virus è stata particolarmente efficace e ha raggiunto alte percentuali della popolazione. In queste condizioni, gli effetti dell’attuale variante Omicron sempre più assomigliano a quelli di una “normale” infezione virale delle vie aeree causata o da rhinovirus o da coronavirus, che si evolve continuamente da sempre e alla quale ci siamo col tempo immunizzati.

O a quelli dell’influenza virale, alla quale ci immunizziamo ogni anno con un nuovo vaccino. Con ogni probabilità, così dovremo fare in futuro anche per il Covid.

Norme confuse

I dati dunque sconsigliano di adottare oggi lo stesso tipo di misure emergenziali – per quanto attenuate – con le quali si è risposto al primo arrivo del virus (lockdown, isolamento, con le diverse gradazioni, sostegni economici generalizzati, ecc.).

Se è già evidente sul piano istituzionale che una emergenza permanente è una pericolosa contraddizione in termini, è lecito domandarsi se non lo sia anche sul piano epidemiologico ed economico.

Già oggi si è costretti ad attenuare in maniera confusa le norme sulla quarantena solo perché troppe persone ne sono coinvolte, e ormai anche cittadini virtuosi e consapevoli preferiscono non segnalare la positività per non entrare in una spirale regolamentare spesso incomprensibile.

Tutto dunque suggerisce di metter fine all’emergenza e di entrare in un regime di normale, decisa, lotta al virus. Come prima cosa imponendo a tutti il vaccino (eventualmente nella forma tedesca: distinzione netta tra vaccinati e non vaccinati).

Sarebbe opportuno che le autorità mettessero fine alle mille voci in proposito spiegando i motivi per i quali non hanno ritenuto di imporre il vaccino. Timori delle conseguenze politiche, o giuridiche? Inutile dire che l’obbligo già esiste per diversi vaccini e ha consentito di eradicare alcune malattie endemiche.

Entrare in un regime normale significa attrezzarsi a gestire l’epidemia, in modo questo sì permanente e non emergenziale, e a prendersi cura dei malati gravi di Covid-19, che sono statisticamente una esigua minoranza, senza che i ricoveri danneggino, come sta tragicamente avvenendo, tutte le altre terapie.

Protocolli ordinari

I malati di Covid devono entrare nel protocollo normale della sanità. Qualcuno, ragionando in termini di eccezionalità, ha proposto di rendere onerosa la cura dei malati non vaccinati. Una misura che andrebbe contro la stessa esistenza del nostro sistema sanitario, che in via di principio è ottimo.

Le patologie dovute a cattive pratiche sono numerose. Si pensi al diabete, all’obesità o anche a molti tumori. Non per questo non vengono curate. Ma occorre attrezzare il sistema in conseguenza.

Consideriamo ad esempio la risposta data ai danni derivanti dal fumo: non ha certo comportato il rifiuto delle cure ai fumatori accaniti, né l’imposizione di particolari oneri, e nemmeno il divieto assoluto del fumo – come in Nuova Zelanda.

Le cure sono garantite a tutti, ma accompagnate da efficaci campagne di sensibilizzazione e dall’introduzione di divieti che hanno portato a nuovi comportamenti collettivi.

Quando ero giovane ho intravisto molti film attraverso una cortina di fumo; oggi la proibizione del fumo nei locali pubblici non è sentita come una limitazione della libertà, ma è accettata come regola di civiltà utile a tutti.

Le sputacchiere e i cartelli “vietato sputare per terra”, usuali ai tempi della tubercolosi, sono scomparsi. Intense campagne sanitarie hanno a suo tempo educato a buone regole, come mettersi la mano davanti alla bocca quando si tossisce, o lavarsi le mani dopo essere stati in bagno.

Passata quella stagione, proprio la diffusione delle regole igieniche e delle profilassi ha reso più sicura la popolazione e attenuato i comportamenti virtuosi. È ora di riprenderli. Abituiamoci a un certo “distanziamento”, o a utilizzare quelle mascherine che eravamo soliti vedere sulla bocca dei turisti giapponesi.

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