Un po’ come il mondo del fine dining si sta spogliando ormai da tempo dagli orpelli di cui nessuno, ormai, percepisce il valore o la necessità, così anche il mondo del vino ha alleggerito il proprio gusto. Di qui l’esperimento dell’early harvest wine, vendemmiati qualche settimana prima del grado ottimale di maturazione, quindi con meno zucchero (e meno alcol potenziale)
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola
In fatto di vini, il tempo, più che un ingrediente, è una variabile. Può aumentare e diminuire in tutte le fasi di vinificazione, dalla vendemmia all’affinamento. Uve di uno stesso vitigno, ma raccolte con qualche settimana di anticipo, daranno vita a un vino completamente diverso, sia per sentori che per gradazione alcolica. È il caso degli early harvest wine, i vini da vendemmia anticipata, una delle tendenze del mercato dei NoLo, la macro categoria di no-alcol e low alcol di cui tanto si parla nel mondo dei consumi contemporanei.
L’uva, vendemmiata qualche settimana prima che raggiunga il suo grado ottimale di maturazione, contiene meno zucchero, e ha quindi un livello di alcol potenziale (la percentuale di alcol che può essere prodotta dalla fermentazione di tutti gli zuccheri presenti nel mosto) più basso.
«Con una vendemmia anticipata si hanno meno zuccheri, è vero, e ciò si traduce in meno alcol, ma anche in più acidità, quindi mosti più spigolosi, più verticali», spiega Andrea Moser, enologo e consulente, ex kellermeister di cantina Kaltern. Gli harvest wine possono essere una valida e più naturale alternativa ai vini dealcolizzati, ma per ottenere prodotti di qualità ci vogliono alcuni accorgimenti.
A cosa prestare attenzione
«L’aromaticità in un vino da vendemmia anticipata – continua Moser – non si sviluppa in maniera ottimale, spesso si ha una prevalenza di aromi legati all’ambiente del verde. Faccio un esempio: con un vitigno come il Sauvignon Blanc prevarranno sentori di asparago, peperone, foglia di pomodoro». Vini più verticali, quindi, con una spiccata acidità che non sempre può risultare piacevole. «La differenza rispetto a un vino classico, anche se poi ormai di classico non c’è più nulla, è che hanno un frutto più spiccato, un’acidità e una scorrevolezza sicuramente più alta e spesso anche un colore leggermente più chiaro», aggiunge Thomas Piras, co-founder del ristorante Contraste, una stella Michelin a Milano, e sommelier di formazione.
I vini da vendemmia anticipata, poi, non sono adatti a tutti i vitigni, e la questione si complica ancora di più quando si tratta di rossi. «In questo caso, bisogna stare attenti alle pressature. Perché si rischia di tirar fuori delle parti tanniche molto dure», riprende Moser. Quando gli acini non sono completamente maturi, infatti, è difficile riuscire a fare una “pressatura soffice”.
«Immagina di schiacciare con la mano un chicco d’uva ancora verde, devi fare forza per ottenerne il succo». Gli early harvest, quindi, rappresentano sì un’alternativa per chi cerca una bevuta più leggera, senza rinunciare alla naturale complessità del vino. Per produrre un vino da vendemmia precoce di qualità, però, ci vuole l’esperienza di un buon enologo e tutte le accortezze del caso.
L’etichetta è funky, l’idea non manca e all’assaggio è un vino che invoglia a berne ancora. Un esempio virtuoso di early harvest è il Nolo di Cantina Puiatti, realtà vitivinicola più “pop” del gruppo Angelini Wines & Estates. Un blend di Ribolla Gialla, che apporta la parte fresca e verticale, Pinot Grigio per la morbidezza e Sauvignon Blanc, che regala aromaticità. «L’idea nasce da un duplice stimolo: da un lato, l’osservazione dei cambiamenti climatici, che influenzano sempre più le dinamiche di maturazione delle uve – racconta Alberto Lusini, presidente e amministratore delegato di Angelini Wines & Estates – dall’altro, l’ascolto di un pubblico contemporaneo, più attento a modalità responsabili, leggere e sostenibili di acquisto e fruizione».
In realtà, il Nolo di Cantina Puiatti è coerente con un percorso che ha inizio quasi sessant’anni fa, quando le tendenze del bere erano quasi opposte a quelle contemporanee. Cantina Puiatti nasce infatti nel 1967, e già allora le parole d’ordine, in controtendenza, erano “leggerezza” e “bevibillità”. «La leggerezza per noi è anche un’attitudine estetica e creativa: si riflette nei packaging e nei linguaggi», conferma Lusini.
Vendemmia precoce
«Il trend di scegliere vini con più bevibilità è effettivamente esploso – osserva Piras, che da qualche anno ha anche un’azienda di distribuzione che si chiama, appunto, “Abere” – Si parla sempre di mode in termini negativi, ma i trend, soprattutto nel beverage, servono a capire dove stiamo andando, non è nient’altro che una risposta». E un po’ come il mondo del fine dining si sta spogliando ormai da tempo dagli orpelli di cui nessuno, ormai, percepisce il valore o la necessità, così anche il mondo del vino ha alleggerito il proprio gusto.
«Essendo noi un ristorante che fa del servizio tailor-made una cifra stilistica, dobbiamo essere sempre più pronti ad accontentare il cliente, quindi in carta abbiamo sia dei prodotti no alcol che vini con vendemmie anticipate». Secondo Piras, sono vini che si prestano in modo particolare ad essere abbinati a un percorso gastronomico complesso: «Si abbinano bene a una cucina molto grassa, oppure a dei menu degustazione, soprattutto quando si cambiano molti calici».
In Italia, al livello tecnologico attuale, è quasi impossibile trovare prodotti dealcolizzati di qualità. «Utilizzare energia per produrre il vino, per poi impiegarne altra per togliergli l’alcol, è un nonsense», su questo punto, Moser non ha dubbi. «Dealcolare un vino è l’emblema della manipolazione, piuttosto è meglio bere dei grandissimi tè, caffè in filtro o infusi, ormai è pieno di alternative», gli fa eco Piras. Una di queste, in effetti, è la kombucha. Il progetto Komb(w)ine nasce da un’idea di Andrea Moser insieme al socio Ettore Ravizza. L’interazione tra il mosto d’uva e lo scoby, la coltura simbiotica di batteri e lieviti che avvia la fermentazione nutrendosi dello zucchero naturalmente presente nel mosto.
Insomma, le varietà racchiuse sotto la macrocategoria dei NoLo sono moltissime, anche senza il bisogno di dover ricorrere a processi fisici come la dealcolizzazione. L’unica regola? È piacere. «Se riusciremo a fare prodotti buoni, usciranno dalla nicchia, è la regola di qualsiasi mercato», conclude Moser.
© Riproduzione riservata