Se il contagio proseguirà a questo ritmo, entro la prossima settimana gran parte delle regioni italiane si troverà in zona arancione o rossa. In due settimane l’intero paese potrebbe finire in lockdown. Si tratta di una soluzione che medici ed esperti auspicano da settimane, ma che allo stesso tempo rappresenta il fallimento della strategia che il governo e i suoi consiglieri scientifici hanno cercato di perseguire fino a questo momento: l’imposizione di lockdown locali per evitare l’adozione di misure economicamente e socialmente costose in tutto il paese.

L’idea era giusta, ma i mezzi per realizzarla si sono rivelati inadeguati. Le regioni sono state politicamente incapaci di intraprendere le azioni necessarie a contenere la pandemia a livello locale e il governo non ha avuto la volontà di imporgliele fino a quando non è stato troppo tardi. La trasmissione e la gestione dei dati su cui queste chiusure locali avrebbero dovuto basarsi è stata disastrosa. Per i cittadini è stato difficile rendersi conto della gravità della situazione, mentre quando le chiusure locali sono state finalmente decise, l’impressione di molti è stata che fossero ingiustificate o politicamente motivate.

«Mai più lockdown nazionali»

La strategia delle chiusure locali era stata tentata già nel corso della prima ondata, prima che ci si rendesse conto che l’epidemia era ormai fuori controllo. Poi, dopo due mesi di lockdown nazionale, la chiusura generale era stata giudicata insostenibile, un esperimento da non replicare. Così, alla fine di aprile, il ministero della Salute ha compiuto un primo passo per portare a un sistema di lockdown mirati in vista della seconda ondata: quella che oggi è diventata la famosa lista dei 21 indicatori (pdf) per valutare la gravità dell’epidemia a livello locale.

Alla fine di agosto, il governo si vantava del «sofisticato» sistema di monitoraggio che, come ha ripetuto spesso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, avrebbe permesso di evitare un nuovo lockdown nazionale. «Se le cose andranno male – aveva detto ad esempio all’inizio di settembre – potremo intervenire con misure molto circoscritte sul piano territoriale».

Ma in quei giorni le cose stavano già andando male. I 21 indicatori mostravano che la situazione peggiorava almeno dalla metà di luglio e da agosto il Comitato tecnico scientifico parlava della necessità di adottare lockdown locali se la situazione non fosse migliorata. Ma nessuno sembrava prendere sul serio la possibilità. Ancora alla fine di settembre, le regioni chiedevano al Cts di valutare la riapertura degli stadi e di consentire di nuovo gli sport di contatto. I verbali pubblicati questa settimana mostrano che la richiesta è arrivata proprio il giorno in cui il Cts suggeriva nuovamente di imporre chiusure regionali.

Ma anche il governo ha agito lentamente. Soltanto lo scorso 12 ottobre il ministero della Salute ha pubblicato un documento in cui i vari livelli di rischio calcolati tramite i 21 indicatori erano associati a una serie di azioni di contenimento che le regioni avrebbero dovuto adottare. Probabilmente era già tardi, ma per altre due settimane quasi nessuna di quelle indicazioni è stata attuata. Alla fine il governo si è deciso a intervenire con il Dpcm del 3 novembre che ha introdotto le nuove zone gialle, arancioni e rosse. Ma anche questo passo è stato intrapreso tra le proteste dell’opposizione e delle stesse amministrazioni regionali.

Il caos dei dati

Rendere i 21 indicatori il centro della comunicazione sull’epidemia avrebbe aiutato i cittadini a capire quando e dove era il momento di chiudere. Ma inspiegabilmente, fino alla scorsa settimana, questi dati sono rimasti in gran parte segreti, pubblicati solo in versione sintetica e senza ricevere adeguata pubblicità.

Quello che invece il pubblico ha ricevuto è una cascata di numeri e rapporti, distribuiti in modo confuso e spesso non semplici da interpretare. Uno spazio enorme è stato dato ai dati, pubblicati ogni giorno intorno alle 17 dalla Protezione civile. Poco prima di questo orario, quasi tutte le regioni pubblicano sui loro siti i dati locali sull’evoluzione della pandemia sul territorio. Altri bollettini ancora vengono invece pubblicati dalle singole Asl.

Il ministero della Salute e gli organi scientifici contribuiscono al caos. L’Istituto superiore di sanità pubblicava ogni venerdì un report sulla situazione nazionale della pandemia, ma da questa settimana non si sa più quando e con che cadenza il rapporto sarà pubblicato. Viene poi diffuso un altro rapporto, sempre dall’Istituto di sanità, con numeri diversi provenienti della sorveglianza integrata. C’è infine l’Agenas, che pubblica quotidianamente dati sull’occupazione dei posti in terapia intensiva e nei reparti di medicina, sulla cui solidità però molti ricercatori hanno dei dubbi.

Numeri affidabili?

L’occupazione delle terapie intensive è uno dei numeri chiave per decidere in quale zona collocare una regione. Eppure è uno dei dati simbolo dell’attuale confusione. Prendiamo la Lombardia, secondo l’Agenas al 10 novembre più del 50 per cento dei posti in terapia intensiva erano occupati. Lo stesso giorno l’Iss diceva invece che erano il 32 per cento. Lo scarto è dovuto probabilmente a un differente arco di tempo usato dall’Iss e dall’Agenas, ma la confusione rimane. Se questi dati si basano sulla stessa fonte, per quale motivo non prendere subito in considerazione quelli più aggiornati invece che prendere decisioni con quelli più vecchi?

Non solo le terapie intensive, ma anche i dati sui tamponi cominciano a diventare sempre meno chiari. Alcune regioni, come Toscana, Veneto, Lazio e Piemonte, hanno iniziato a inserire nel totale quotidiano dei tamponi effettuati anche il numero di quelli rapidi. Altre regioni invece non lo fanno. Come è possibile intervenire chirurgicamente se i dati non sono omogenei fra regioni?

I dati delle regioni sono fondamentali per consentire la strategia del governo, ma i dubbi sulla loro affidabilità sono sempre più diffusi. La procura di Genova ha detto di aver aperto una “inchiesta conoscitiva” su quelli forniti dalla regione Liguria, mentre ci sono talmente tanti dubbi su quelli campani che in regione sono arrivati gli ispettori de ministero. 

Da settimane, i vari comitati scientifici del governo segnalano l’incompletezza dei dati forniti dalle regioni. Non si tratta sempre di incompetenza dolosa, anzi: prove di coscienti manipolazioni ancora non ce ne sono. Ma è chiaro che le strutture regionali, sottoposte ad anni di tagli e ristrettezze economiche, non sono preparate a fornire tutti i dati di cui c'è bisogno.

Tra gli ostacoli politici e i limiti tecnici che emergono dal caos sui dati, il governo spera di riuscire a gestire la pandemia in modo ordinato. Forse è il momento di accettare il fatto che non siamo più in grado di farlo.

 

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