Sabato 18 dicembre si svolgeranno le elezioni di 31 presidenti di provincia e 75 consigli provinciali. Le province sono state a lungo uno snodo chiave del decentramento politico-amministrativo in Italia. La riforma costituzionale del 2001 ne aveva addirittura riconosciuto la pari dignità con regioni, comuni e stato.

Poi sono entrate nell’occhio del ciclone della campagna anti casta del 2007-2013. Anche con qualche ragione, che avrebbe giustificato interventi normativi sul numero, sulle funzioni, sulla composizione e il ruolo dei consigli, spesso sede di dibatti lunari.

Posso riferire per esperienza diretta che invece dal 2008 al 2011 fu inscenato uno dei classici giochi al rinvio tra i due rami del parlamento. Mentre si dichiarava di volere intervenire, non solo per rispondere alla pressione di opinione pubblica e media, si perdeva scientificamente tempo, sulla base di un sotterraneo accordo bipartisan tra i vertici dei gruppi parlamentari, sollecitato dall’Unione delle province, in attesa che la nottata passasse.

Il governo Monti

AP Photo/Alessandra Tarantino

È arrivato quindi il governo Monti che, insieme alle pesanti misure di austerità, ha pensato di dover anche “fare qualcosa di populista” e nel decreto Salva Italia, in poche righe, a Costituzione invariata, ha cancellato l’elezione popolare diretta di presidenti e consigli provinciali trasformandoli in organi formati da amministratori comunali che avrebbero dovuto svolgere più o meno le stesse funzioni dei predecessori ma gratis e nel tempo libero.

Sulla materia è poi intervenuta la cosiddetta legge Delrio (n. 56/2014) che ha stabilizzato quelle scelte «in attesa della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione».

In attesa, cioè che, se non abolite del tutto, le province perdessero lo status di ente «costitutivo della Repubblica» e che fossero chiariti motivi e implicazioni dello speciale ruolo attribuito alle città metropolitane.

La permanenza del transitorio

Dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale del 2016, la soluzione transitoria è diventata permanente. Le province hanno perso dipendenti, molti trasferiti alle regioni, insieme a vari dirigenti tra i più qualificati, pur avendo mantenuto due funzioni essenziali oggi sottomonitorate: la gestione delle strade provinciali, appunto, e dell’edilizia per le scuole medie superiori. Nel frattempo, sono diventate evidenti tutte le storture del modello transitorio.

In base alla legge 56, presidenti di provincia e sindaci metropolitani sono depositari assoluti della funzione esecutiva. Non esiste una giunta quale organo collegiale che li assista e con cui si debbano confrontare. Possono attribuire “deleghe” ma rimangono gli unici titolari di ogni decisione. Allo stesso tempo, non possono essere sfiduciati dal consiglio, dal quale dipendono di fatto solo per l’approvazione annuale del bilancio. Ma chi li elegge?

Diventa sindaco metropolitano, di diritto, il sindaco del comune capoluogo. Quindi, il ruolo a cui corrisponde il maggior potere, in quanto le città metropolitane svolgono più funzioni e amministrano più risorse delle province, è posto in capo a persone elette inconsapevolmente dai residenti nel comune capoluogo e mai votate dai residenti negli altri comuni.

Su questo è intervenuta il 7 dicembre la Corte costituzionale, con una decisione per ora resa pubblica solo con un comunicato stampa. Dopo altre pronunce tese a difendere la scorciatoia del Salva Italia, ha dichiarato che «l’attuale disciplina sui sindaci delle città metropolitane è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto e pregiudica la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori».

Ha precisato che «spetta al legislatore introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle città metropolitane». Quindi: i sindaci metropolitani attualmente in carica sono frutto di una elezione viziata da elementi di incostituzionalità e il parlamento dovrebbe intervenire per riformare la materia.

L’elezione

Va detto che la legge Delrio prevede già oggi la possibilità di una elezione diretta del sindaco metropolitano, ma pone come condizione la divisione del capoluogo in comuni distinti e rinvia inoltre alla approvazione di una ulteriore legge statale la determinazione del sistema di voto.

A Milano, ad esempio, lo statuto della città metropolitana già stabilisce che sindaco e consiglio dovrebbero essere eletti direttamente dai cittadini, ma questa previsione rimane inefficace in mancanza della legge nazionale sul sistema elettorale.

I componenti dei consigli provinciali e metropolitani (come i presidenti di provincia) sono invece eletti da consiglieri comunali e sindaci della provincia con voto ponderato.

Vuol dire che, ad esempio, il voto dei 49 consiglieri comunali di Milano vale 34.986 voti ponderati. Per arrivare allo stesso valore bisogna sommare il voto ponderato di circa 1.500 consiglieri di comuni con meno di 30.000 abitanti.

Naturalmente, mentre tutti e 49 i consiglieri comunali di Milano sono andati a mettere nell’urna la loro scheda pesantissima, il tasso di partecipazione tra i consiglieri dei comuni minori è più basso.

La rappresentanza rischia di risultare territorialmente squilibrata e la scelta dei consiglieri è in larga parte in mano a negoziati che si svolgono all’interno dei partiti.

Invece che affrontare compiutamente la questione, e ridare una logica al sistema degli enti locali, rivedendo in maniera coerente funzioni e governance di province e città metropolitane, magari giustificando meglio o superando questa differenziazione, sono state prese silenziosamente misure per risolvere di volta in volta problemi specifici, su cui si poteva trovare facilmente un largo consenso tra le maggiori forze politiche.

Una nuova vita

Grazie al decreto 124/2019, a partire dal gennaio 2020, i presidenti delle province godono di una indennità pari a quella prevista per il sindaco del comune capoluogo. Ora l’Unione delle province chiede un rafforzamento delle funzioni, la ricostituzione delle giunte, l’aumento del numero dei consiglieri, modifiche del voto ponderato.

Non è ancora chiaro se il governo si prenderà carico di queste richieste trasformandole in un provvedimento normativo da sottoporre al parlamento in tempi brevi.

La pronuncia della Corte, a prima vista, potrebbe apparire come uno stimolo a farlo, in realtà rende le cose più difficili. Il governo dovrebbe intervenire sulla materia senza tenerne conto oppure dovrebbe riaprire una discussione di sistema che non è detto la sua maggioranza sia in condizione di reggere.

Del resto, se il governo Draghi non ha una visione compiuta da proporre per riparare ai difetti prodotti dal precedente esecutivo a guida tecnica forse è preferibile che non perseveri con ulteriori misure prese in un’ottica di breve termine. 

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