Alla Camera la mostra fotografica che ricorda il dramma in cui, il 30 agosto del 1965, hanno perso la vita 88 persone, di cui 56 italiani, sepolti vivi da due milioni di metri cubi di ghiaccio. Non un semplice incidente. Il lavoro sulla memoria di quanto accaduto ha fatto emergere responsabilità e i tentativi di cancellare tutto, il prima possibile
«Avevo appena attraversato il ghiacciaio con le mie pecore. Mi sarei fermato alla buvette del cantiere a bere qualcosa con gli operai, ma c’era già il bus pronto che mi avrebbe riportato giù in paese. Al terzo tornante, un boato». Stefan Andenmatten aveva 17 anni, viveva a Saas-Almagell, un villaggio di trentasette case a otto chilometri dal cantiere per la costruzione della diga di Mattmark. In quel momento – erano le 17:15 del 30 agosto 1965 – sul cantiere lavoravano circa 700 persone.
Negli anni Cinquanta la Confederazione elvetica aveva inaugurato una nuova fase della politica di industrializzazione e il Canton Vallese, dove si trovano i due terzi dei ghiacciai svizzeri, era diventato il motore dello sviluppo dell’intero paese.
Da terra d’emigrazione, la Svizzera si era ritrovata a essere il principale stato europeo ad attrarre manodopera straniera, italiana in particolare. Quella di Mattmark sarebbe diventata la più grande diga di tutt’Europa e una delle più importanti fornitrici di energia idroelettrica.
Manodopera straniera
Il cantiere per la sua costruzione era stato inaugurato nel 1960, a più di duemila metri d’altitudine, accanto al ghiacciaio dell’Allalin. Gli operai impiegati erano per il 73 per cento stranieri: a differenza degli svizzeri, pure poverissimi all’epoca, gli stranieri accettavano turni massacranti, orari di lavoro disumani, condizioni d’alloggio miserrime.
Quel 30 agosto 1965 alle 17:15, preceduto da un forte vento, un iceberg di due milioni di metri cubi si era staccato dall’Allalin e abbattendosi sugli alloggi in cui vivevano gli operai, sulle officine, sulla mensa del cantiere di Mattmark, sulle betoniere, sui camion, sulle gru, sulle ruspe e sui bulldozer. Su 86 uomini e su 2 donne. Su 56 italiani, su 23 svizzeri, su 4 spagnoli, su 2 austriaci e su un apolide. In trenta secondi tutto è stato sepolto sotto 50 metri di ghiaccio e non è rimasto più nulla, solo silenzio e biancore assoluto. Quello che ha visto, esterrefatto, Stefan Andenmatten dai finestrini del bus che lo aveva portato verso la salvezza.
Tragedia annunciata
La ditta che aveva vinto l’appalto per la costruzione della diga nel 1954 era la multinazionale zurighese Elektro-Watt. Nel libro Mattmark, 30 août 1965. La catastrophe, uscito nel 2015, a cinquant’anni dalla tragedia, gli storici Toni Ricciardi, Sandro Cattacin e Rémi Badouï (in Italia, nello stesso anno, Donzelli ha pubblicato Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana di Ricciardi) hanno ricostruito la realtà di quel cantiere e, per la prima volta, hanno messo a disposizione di tutti materiali d’archivio che consentono di leggere quella che è stata spacciata come una sciagura imprevedibile, come il tentativo di occultare la più grande tragedia del lavoro mai accaduta in Svizzera.
L’ispettorato era intervenuto più volte a Mattamark sia per le condizioni di vita (alloggi, igiene, salute) degli operai, sia perché gli orari non venivano rispettati: si arrivava a turni di 15 o 16 ore continuative. Ma bisognava far presto, i lavori rallentavano per ogni imprevisto e non consegnare nei tempi fissati comportava il pagamento di pesantissime indennità.
L’ispettorato, quindi, autorizzava deroghe alla legge. Era la crescita economica che aveva la meglio su tutto. Le baracche dove alloggiavano gli operai erano state costruite proprio sotto la lingua del ghiacciaio Allalin. A pochi passi dalla zona di innalzamento della diga, che però si sviluppava in traiettoria diversa e che, infatti, era stata risparmiata dalla valanga: anche la posizione della baraccopoli era una scelta funzionale alle strette tempistiche dei lavori di realizzazione dell’opera. Con gli alloggi e la mensa immediatamente sotto il ghiacciaio, si abbreviavano i tempi di spostamento degli operai verso la diga.
Il ghiacciaio
Che il ghiacciaio si muovesse lo sapevano tutti, da secoli. La nonna di Stefan Andenmatten e la gente del paese tramandavano la memoria dalle tante tragedie del passato. Nel 1929 erano state costruite pareti di protezione contro le valanghe provenienti dall’Allalin e nel 1949 una catastrofe, simile a quella che è avvenuta nel 1965 ma a un centinaio di metri di distanza, aveva ucciso dieci persone.
Col cantiere già in attività, valanghe di ghiaccio di varia entità avevano regolarmente luogo, col risultato di ostruire le vie di comunicazione. Il solo piano di sicurezza era volto a fare in modo che i collegamenti con Saas-Almagell restassero garantiti perché il lavoro non si fermasse.
Sul cantiere non c’era neppure un sistema di allarme in caso di valanga. Il 27 febbraio 1962 l’ingegnere di Elektro-Watt Louis Wuilloud redigeva un rapporto interno: «L’avanzata del ghiacciaio dell’Allalin nel 1961 è significativa. È necessario effettuare misurazioni serie e regolari, perché il pericolo per i cantieri sottostanti potrebbe diventare grave».
Una settimana prima della catastrofe un blocco di ghiaccio di diverse tonnellate era caduto danneggiando la linea dell’alta tensione e finendo la sua corsa davanti alle baracche. La cosa si era ripetuta per tutta la settimana tanto che gli operai si erano messi a costruire uno sbarramento dietro la baracca della mensa, soprattutto per evitare che i blocchi di ghiaccio finissero sulla strada di collegamento.
Il lavoro sulla memoria
Il nome di Louis Wuilloud compariva tra i diciassette imputati convocati al processo del 1972, dopo sette anni di istruttoria, tutti con l’accusa di omicidio per negligenza. C’erano i massimi dirigenti di Elektro-Watt, ma anche funzionari cantonali, responsabili della compagnia assicuratrice Suva, tecnici, ispettori dell’ufficio del lavoro.
Del rapporto di Wuilloud era stata data lettura durante il processo, così come di altre perizie esterne, ma il 2 marzo la sentenza aveva assolto tutti. Come hanno dimostrato Ricciardi, Cattacin e Baudoï nel loro libro, sotto la pressione della politica era prevalsa nei giudici del tribunale distrettuale di Visp la volontà di riaffermare il dogma della catastrofe naturale, una sciagura voluta dall’infallibile destino. La stampa elvetica non aveva fatto altro che convalidare questa tesi. Le famiglie delle vittime erano ricorse in appello.
Abbiamo incontrato Stefan Andenmatten alla tavola rotonda organizzata a Visp lo scorso 8 maggio dall’associazione ItaliaValais, da sessant’anni impegnata in un lavoro di memoria. L’evento fa parte di un ciclo di incontri (e di una mostra fotografica itinerante) che avrà il suo ultimo appuntamento sul luogo della tragedia, il 30 agosto 2025.
Alla tavola rotonda partecipava anche Thomas Burgener, notaio, ex-consigliere di stato in Vallese per il Partito socialista. Suo padre, Eugène Burgener, faceva parte del collegio di 5 giudici del tribunale cantonale di Sion che, nel settembre 1972, hanno confermato in appello l’assoluzione di tutti gli imputati e imposto alle famiglie delle vittime il pagamento della metà delle spese processuali.
Nel 2022 gli atti del processo sono stati desegretati: è stata resa pubblica allora la bozza della sentenza del processo d’appello redatta da Eugène Burgener in cui si emetteva un verdetto di colpevolezza per quattro imputati della società di costruzioni Elektro-Watt. Ma Burgener era stato messo in minoranza e ostacolato. Qualche anno dopo, costretto a un pensionamento anticipato. La Svizzera voleva dimenticare.
Il 10 giugno 2025 è stata inaugurata, presso il Corridoio degli atti parlamentari della Camera (via del Seminario 76 - Roma) la mostra dedica alla tragedia di Mattmark in occasione del 60° anniversario. L’esposizione, inaugurata dal deputato Toni Ricciardi (Pd), dal sottosegretario Giorgio Silli (FI), dal presidente della Commissione Finanze Marco Osnato (FdI) e dal deputato Simone Billi (Lega), è curata Associazione ItaliaValais e dal comitato incaricato delle celebrazioni per il 60° anniversario della tragedia. L’ingresso alla mostra è aperto al pubblico, fino al 20 giugno 2025. Orario di visita: 10 – 18
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