In Saimu. I colori della nebbia, romanzo di Enchi Fumiko del 1976, recentemente approdato anche in Italia grazie a Safarà editore nella traduzione di Maria Teresa Orsi, si coglie bene la fatica — e l’ineluttabilità — che accompagna l’atto di scrivere:

“Non poteva fare altro che scrivere per continuare a vivere. Aveva l’impressione che la sofferenza che provava quando scriveva, simile a quella di un cavallo carico di pesi che, senza un lamento, percorre una strada in salita, fosse la prova che era ancora viva.”

Ma chi è Enchi Fumiko (1905-1986)? Figlia di Ueda Kazutoshi, linguista e celebre accademico dell’Università Imperiale di Tokyo, Enchi lascia la scuola a soli 17 anni ma non rinuncia alla formazione: per anni studia i classici giapponesi e la letteratura straniera sotto la guida di numerosi tutor privati. Esordisce giovanissima come autrice teatrale, ma la sua carriera è presto interrotta: la guerra, la perdita della casa e del padre, e una lunga serie di malattie la allontanano temporaneamente dalla scrittura.

Solo dopo un periodo di silenzio torna a scrivere, stavolta dedicandosi alla narrativa. Nel 1954 conquista il Premio della Letteratura Femminile con Himojii Tsukihi (I giorni della fame) e pochi anni dopo, con Onnazaka (Il sentiero nell’ombra, ripubblicato nella traduzione di Lydia Origlia in Italia da Safarà nel 2017), si aggiudica l’ambito Premio Noma, consacrandosi definitivamente.

La visione della critica

Le sue opere, saldamente radicate nella classicità giapponese, sono allo stesso tempo capaci di offrire sguardi lucidissimi sulle questioni di genere e sessualità, sfidando stereotipi e convenzioni del Giappone dell’epoca e anticipando riflessioni ancora attuali. Ed è forse proprio grazie alla sua familiarità con la letteratura antica che Enchi riesce a giocare con trame e atmosfere, intrecciando citazioni e riferimenti in un raffinato gioco di specchi, che rende i suoi romanzi inesauribili sotto il profilo interpretativo.

Nonostante ciò, gran parte della critica — soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta — si è concentrata principalmente sugli aspetti biografici delle sue opere. Analizzando i temi legati a sesso e genere, molti studi hanno ridotto la potenza dei suoi scritti a un riflesso delle malattie che l’avevano colpita o delle tensioni vissute nel matrimonio, perdendo di vista la complessità e l’universalità della sua voce narrativa.

Troppo spesso, parlare di «scrittura femminile» nel caso di Enchi Fumiko ha significato incasellarla in una lettura che celebra l’empowerment femminile in chiave essenzialista, perdendo di vista ciò che rende davvero unica la sua opera: la capacità di reinventare in modo sempre nuovo i grandi temi della tradizione letteraria giapponese. Allo stesso modo, c’è chi ha visto nei suoi testi soltanto uno strumento di critica all’ordine androcentrico, spingendosi a forzare le interpretazioni e mettendo in secondo piano i contesti – storici, sociali, intellettuali – in cui quei testi sono nati.

Il risultato? Una visione limitata, dove la sua scrittura viene associata esclusivamente al femminile, come se non potesse parlare anche al lettore di genere maschile. Fortunatamente, però, non sono mancati anche studi più attenti, come quelli di Nina Cornyetz, Kobayashi Fukuko e Kurata Yōko, che hanno aperto la strada a una lettura dell’opera di Enchi finalmente più completa e stratificata.

Le opere più celebri

Certo, è impossibile negare il valore delle opere del primo periodo narrativo— come la già citata Onnazaka del 1957, Onnamen, del 1958 (Maschere di donna, pubblicata in italiano da Marsilio nel 1999), o Namamiko monogatari, del 1965 (L’inganno delle sciamane, Safarà 2019), — capaci di colpire il lettore con una forza tale da lasciare un segno indelebile. Onnazaka, ambientata del periodo Meiji e liberamente ispirata alla vita della nonna di Enchi, parla di una donna che per sostenere l’onore della famiglia va a cercare una concubina per il marito.

Onnamen, forse una delle opere più crude dell’autrice, tratta di una donna che sfrutta il suo carisma – come nelle antiche possessioni narrate nella letteratura del periodo Heian (794-1185) – per portare avanti una vendetta nei confronti del defunto marito. Namamiko si focalizza ancora di più sul concetto di possessione spiritica da parte di un essere vivente, per la quale lo spirito si allontanerebbe dal corpo all’insaputa della persona a cui appartiene, per andare a possederne un’altra, bersaglio della gelosia o frustrazione.

Eppure queste opere, proprio per la loro potenza, rischiano di mettere in ombra la produzione successiva, forse meno appariscente, ma a mio avviso ancor più ricca di sfumature e capace di dialogare con un pubblico contemporaneo.

Le opere della maturità

Mi riferisco alle opere scritte tra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, che progressivamente si allontanano dal consueto focus sulla figura femminile e sulla dicotomia di genere per aprirsi a mondi più complessi e sfaccettati, come quello del teatro nō e kabuki, in cui gli attori uomini, dando corpo e voce a ruoli femminili, alterano i confini tra genere rappresentato sulla scena e identità di genere o orientamento sessuale nella vita reale.

In particolare, la figura dell’attore che interpreta ruoli femminili nel kabuki, l'onnagata, occupa un posto centrale non solo in molte delle opere di Enchi, ma anche nei suoi saggi, nei quali l'autrice si è prodigata con pari intensità.

L'onnagata, figura ammirata nelle opere per l'artificiosità che incarna in un'arte tanto ambigua quanto sofisticata, si trasforma, nelle mani di Enchi, in un potente strumento di riflessione sul genere, anticipando, in alcuni aspetti, l'idea della sua performatività teorizzata da Judith Butler. Il genere si rivela non come qualcosa di fisso e determinato alla nascita, ma come una costruzione che si dispiega attraverso l'esperienza, coincidendo con una serie di atti espressi, interpretati ed incorporati nel tempo.

Donna eterna

Al tempo stesso, la bellezza artificiale e costruita dell'onnagata risulta sorprendentemente simile a quella di alcune figure femminili nell'opera di Enchi, che sono percepite come quasi divine. Il tema della donna eterna, scolpita dallo sguardo maschile, è senza dubbio uno degli assi portanti della sua produzione letteraria, come Enchi stessa riconosce in una celebre intervista. Spesso la donna eterna, descritta come “donna sensuale”, emerge in contrasto con una figura di donna intellettuale, definita “donna stoica”: quest’ultima, sebbene meno affascinante, è ritenuta più autentica, poiché non costruita idealmente nella mente dell'uomo. Enchi ci tiene a precisare che anche nella “donna stoica” coesiste una parte della “donna sensuale”.

Questo aspetto emerge chiaramente nella narrazione di Saimu, dove la protagonista, una scrittrice “stoica”, si lascia possedere dallo spirito di una donna “sensuale”, che la spinge verso esperienze erotiche che le consentiranno di raggiungere una consapevolezza interiore mai provata prima. In particolare, i romanzi e racconti con protagoniste donne anziane – un pilastro della sua opera – si confrontano direttamente con la sensualità della donna eterna, intrecciando temi concreti come la demenza senile con un’immagine dell’anziana complessa e sfaccettata.

Questi racconti arrivano a esplorare anche le sfumature più sensuali, grazie a riferimenti alla letteratura e al teatro classici, che spesso legano l’erotico all’ultraterreno, conferendo alla figura della donna anziana una dimensione tutt’altro che stereotipata.

Enchi afferma che Onnazaka è stato scritto per tutte le donne del passato, i cui rancori accumulati nel corso degli anni hanno "posseduto" il testo. A mio avviso, l'intera opera di Enchi può essere vista come un tentativo di far emergere le figure femminili che la storia ha relegato nell'ombra, dando loro voce con la forza e la passione che per secoli le donne giapponesi non hanno potuto esprimere.


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