Un lieto fine. A oltre cinque mesi dalla tragedia sfiorata Christian Eriksen sente di essere pronto.

I test dicono che potrà tornare in campo dopo quel pomeriggio maledetto del Parken Stadium di Copenaghen. E lui non aspetta altro che riprendere a correre dietro a un pallone. Ovunque sia, anche lontano dall’Italia dato che da noi le regole non consentono di giocare a chi porti un defibrillatore sottocutaneo.

Dunque la sola certezza è che non lo rivedremo in campo con la maglia dell’Inter, che dal canto suo pur di consentirgli il ritorno all’agonismo è disposta a concedergli lo svincolo. Un bel gesto che chiude nel modo migliore un rapporto reso più forte dalla grande paura.

Certo, riaverlo in nerazzurro sarebbe stata in assoluto la conclusione migliore di questa storia. Ma viste le premesse non si poteva fare diversamente. Sicché adesso la destinazione più probabile è l’Ajax, squadra in cui Eriksen ha militato fra il 2009 e il 2013.

In Olanda le regole sono più permissive verso i calciatori che portino dispositivi di ausilio cardiologico, come dimostra il caso di Daley Blind. Dal prossimo mese di gennaio, quando si avvierà a compiere 30 anni, il centrocampista danese potrà inaugurare la seconda vita calcistica.

Quel dramma in Eurovisione

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Si tratta di un esito che nessuno, cinque mesi fa, credeva possibile. Quel pomeriggio del 12 giugno, dopo che al 43’ Eriksen si era accasciato e era rimasto immobile per una ventina di minuti, pareva già un prodigio averlo tenuto attaccato alla vita. La prosecuzione della carriera agonistica era tema troppo al di fuori dell’orizzonte.

Si giocava Danimarca-Finlandia, gara valevole per gli Europei, e sul punteggio di 0-0 l’interista era stramazzato in prossimità della fascia laterale senza che fosse stato coinvolto in uno scontro di gioco.

Che la situazione fosse drammatica era subito chiaro e i venti minuti che ne sono seguiti sono stati fra i più drammatici e toccanti che la storia del calcio europeo ricordi. Coi sanitari a operare un massaggio cardiaco interminabile. Coi compagni di squadra in lacrime raccolti intorno al punto in cui i soccorsi venivano portati per fare da scudo a telecamere e obiettivi fotografici. E con Simon Kjaer e Kasper Schmeichel a prendersi cura di Sabrina Kvist Jensen, la moglie di Christian che con indosso la maglia numero 10 di lui era scesa in campo disperata per andare a vedere cosa stesse succedendo al suo uomo.

Un lasso di tempo lunghissimo, che nessuno fra quelli che lo hanno vissuto dimenticherà. Così come non verranno dimenticate le polemiche seguenti. Come quella sulla copertura data dalla regia televisiva a quanto stava accadendo, una performance che in molti hanno giudicato un po’ troppo invadente e occhiuta.

O quella sulla prosecuzione della partita (poi vinta 1 a 0 dalla Finlandia), che sarebbe stata imposta dall’Uefa ai calciatori danesi, il cui stato d’animo andava in tutt’altra direzione. Loro in campo non avrebbero voluto tornarci e lo hanno fatto solo per dovere d’ufficio, mentre dall’ospedale giungeva notizia che Eriksen era fuori pericolo.

(Wolfgang Rattay, Pool via AP)

Festeggiare senza dimenticare

Dunque Eriksen torna alla vita agonistica e ciò significa che tutti possiamo festeggiare. Non è retorica, è vera partecipazione. E chi in quei lunghissimi 20 minuti è rimasto incollato al teleschermo, ansioso di scorgere un segnale dietro quel muro di maglie rosse che celava le operazioni di soccorso, sa bene cosa si intende dire.

Perché in quel frangente Christian Eriksen è appartenuto a tutti noi, dunque tutti noi registriamo come un’insperata vittoria il suo ritorno al calcio agonistico.

E tuttavia è necessario anche non dimenticare. Perché a questa tragedia sfiorata fanno da contraltare tante tragedie che invece si consumano sui campi sportivi di ogni livello e disciplina.

Il centrocampista dell’Inter si è salvato perché ha avuto la fortuna di avere prestato il primo soccorso da un compagno di squadra (Kjaer) capace di intuire subito la gravità della situazione e intervenire, e poi da uno staff sanitario del massimo livello come sono quelli che stazionano a bordocampo in una competizione sportiva d’élite.

Ma purtroppo molti altri e molte altre lasciano la vita sui terreni di gioco perché non godono di altrettanta protezione. Nell’anno 2021 si continua a morire di sport, soprattutto nei campi dove si svolge attività agonistica non di élite, perché non c’è abbastanza prevenzione né copertura in termini di risorse e assistenza. Il caso Eriksen ci dice che quel dossier è sempre aperto. E che la sua soluzione è ancora molto lontana.

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