L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha accelerato il processo di costituzione di un esercito europeo? La risposta è paradossale solo in apparenza: quell’obiettivo o quella chimera, dipende dai punti di vista, si è sia allontanato sia avvicinato.

È diventato più vicino per la gente comune che ora vede Vladimir Putin come una vera minaccia e quindi considera l’allestimento di una forza difensiva comune una necessità ben più impellente di qualche mese fa. Ma l’idea di un esercito europeo si è allontanata se si considerano i politici e i rappresentanti delle istituzioni, sia italiane sia di altri paesi.

E non tanto perché politica e istituzioni non condividano l’idea che la Russia sia un pericolo ma perché, di fronte all’aggressione, il riflesso immediato di alcuni stati come la Germania è stato quello di mettersi in proprio, moltiplicando fino a raddoppiarli gli impegni economici nazionali e fornendo così implicitamente un segnale di sfiducia verso il progetto comunitario.

Ma soprattutto perché i politici si sono accorti che dopo trent’anni che se ne parla, poco è stato fatto davvero e ora per la costruzione di un esercito i dubbi sopravanzano le certezze. Le perplessità riguardano la complessa impalcatura istituzionale a cui si dovrebbe mettere mano probabilmente con anni di lavoro.

Sei missioni armate

Tra queste due posizioni che potremmo definire del popolo e dell’élite politica, c’è poi una realtà che quasi tutti ignorano o fanno finta di ignorare: da più di un decennio una sorta di esercito europeo è già all’opera. Embrionale, poco più di un misconosciuto cespuglio armato, ma c’è. E ha il merito di essere rodato e regolato da meccanismi accettati dai paesi membri.

Questo esercito in nuce è costituito dalle missioni militari con scopi specifici anche fuori dai confini comunitari a cui partecipano, con uomini e mezzi, gli eserciti dei paesi europei. In questo momento le missioni sono sei e, stando alle opinioni di molti addetti ai lavori, non costano molto e funzionano bene.

Ampliarle e attrezzarle in relazione alle nuove esigenze, a partire da quella della difesa dalla Russia, non è un’impresa titanica, ma un’idea basata su un approccio pragmatico che deve però essere alimentata da una forte volontà politica.

È comunque una strada molto più veloce e a portata di mano rispetto alla costituzione di un esercito europeo vero con decine di migliaia di soldati e costosi sistemi d’arma da armonizzare. Inoltre i due percorsi non si elidono a vicenda.

Dall’inizio della guerra in poi sono cresciute a sorpresa le perplessità della politica a proposito della costituzione di una difesa comune. In alcuni casi le frenate appaiono strumentali, dettate dall’obiettivo di riproporre l’assetto esistente ritenuto immodificabile, basato sulle singole forze armate dei paesi europei inserite nel sistema difensivo Nato.

Il difetto palese di questa impostazione sta però nel fatto che, a parte ogni valutazione sulla dipendenza dalla forza statunitense, è molto dispendiosa perché poggia su tanti e costosi sistemi d’arma non sempre interoperanti.

La riprova è che i paesi dell’Unione europea spendono tutti insieme tre volte ciò che spende annualmente la Russia per le sue forze armate senza che l’Europa possa neanche lontanamente ambire a una posizione di potenza militare. Per rafforzare questo assetto la Nato chiede inoltre a ogni paese un adeguamento della spesa annuale fino al 2 per cento del prodotto lordo (Pil).

Austrian NATO peacekeeping EUFOR troops stop as they patrol in downtown Sarajevo, Bosnia, Monday March 7, 2022. For some European countries watching Russia's bloody invasion of Ukraine, there are fears that they could be next. Western officials say the most vulnerable could be those who are not members of the NATO military alliance or the European Union, and thus alone and unprotected — including Ukraine’s neighbor Moldova and Russia's neighbor Georgia, both of them formerly part of the Soviet Union — along with the Balkan states of Bosnia and Kosovo. (AP Photo/Armin Dorgut)

Revisione istituzionale

Gli altri dubbi espressi da politica ed esperti riguardano la necessità di una complessa revisione complessiva dell’architettura istituzionale comunitaria propedeutica alla costituzione di un esercito. Le perplessità sono tante: i trattati dovrebbero essere modificati? E i rapporti con la Nato come dovrebbero essere regolati? Quale autorità politica avrebbe il potere di impiegare il nuovo strumento militare? Attraverso quale percorso istituzionale potrebbe esserne consentito l’uso? Ci vorrebbe un voto del parlamento europeo? O una decisione collegiale dei capi di stato dei singoli paesi? E in quali casi entrerebbe in azione: sul modello dell’articolo 5 della Nato quando uno dei paesi subisce un attacco o anche in altre circostanze? E le varie costituzioni nazionali dovrebbero essere modificate di conseguenza? E infine il dubbio dei dubbi: come è possibile organizzare un esercito senza sapere di quale politica estera europea deve essere lo strumento.

Le sei missioni militari europee in corso hanno nomi che dicono poco, ma il vantaggio di funzionare da molti anni. Questo è l’elenco: Eufor Althea che dal 2004 opera per il mantenimento della sicurezza in Bosnia-Erzegovina; Eufor Atlanta, operazione navale istituita nel 2008 per contrastare la pirateria sulle coste somale; Eutm Somalia operativa dal 2010 con sede in Uganda e proiezione nel Corno d’Africa; Eutm Mali che da 9 anni fornisce consulenza alle forze armate maliane; Eutm Rca per la formazione delle forze di sicurezza della Repubblica centrafricana; Eunavfor Med Irini operativa dal 4 maggio 2020 per far rispettare l’embargo Onu per le armi alla Libia.

Fondi raddoppiati

Le missioni più importanti sono Atlanta e Irini. Nella prima sono impiegati circa 400 uomini, due navi e 4 aerei con un costo di 26 milioni e mezzo di euro l’anno. Irini impiega quasi 600 militari, tre navi di Francia, Grecia e Italia, tre aerei di Germania, Polonia e Lussemburgo, un team maltese per l’abbordaggio dei mercantili, un centro di supporto per le immagini satellitari e costa 40 milioni di euro l’anno.

Al comando si alternano ufficiali dei paesi partecipanti, l’Italia ha un proprio centro unificato di comando affidato di recente al generale Francesco Paolo Figliuolo, l’ex commissario straordinario per l’emergenza Covid.

Fino a un anno fa il finanziamento delle missioni era quasi per intero a carico dei paesi partecipanti che poi potevano chiedere una compartecipazione all’Europa che però non erogava mai sotto il 5 per cento e mai sopra il 15. Poi è cambiato approccio, è stato istituito un fondo dotato di 5,6 miliardi di euro che ha consentito di raddoppiare da un minimo del 30 fino al 40 per cento la partecipazione europea alle spese.

Il prossimo obiettivo politico potrebbe essere quello di aumentare il finanziamento europeo fino al 90 per cento, così da sostenere lo sforzo dei vari paesi che partecipano alle esercitazioni e alle iniziative comuni, lasciando un 10 per cento a carico di ogni singola nazione. Sulla carta non sembra un’impresa impossibile, le procedure ci sono e funzionano. Ma la volontà politica c’è?

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