«L’italiano batte le mani quando il suo aereo atterra/ ma non batte ciglio quando il paese affonda». Così Fedez in Pop-hoolista, disco della maturità, manifesto poetico-politico del settembre 2014 uscito (per caso? Chi lo sa) nei giorni in cui il cantante milanese svelava contestualmente in conferenza stampa il suo appoggio per il Movimento 5 stelle. Con qualche rischio minimo che tocca sempre agli artisti che si “espongono”, specialmente da noi dove non si usa. Lui già allora mise le mani avanti, in difesa: «Non vuol dire che credo alle scie chimiche o al controllo mentale».

Ma una volta Di Battista svelò certe loro chat: «Lui mi aggiorna sulla musica. Io gli spiego le riforme». Se l’era cercata. Di certo il jingle Io non sono partito, cantato per un raduno nazionale del Movimento apparve un po’ forzato, scritto col bilancino delle circostanze: «Caro Napolitano te lo dico con il cuore / o vai a testimoniare oppure passi il testimone». Quindi dimenticabile, seppure degno di passare alla storia della comunicazione politica repubblicana come Anna Identici mondina, Mimmo Modugno in favore del divorzio o La canzone popolare di Ivano Fossati. Fedez in quei giorni così turbolenti si trovò a fianco di Dario Fo – il quale benché stanco e anziano avrebbe potuto dargli qualche lezione in fatto di canzone politica.

In realtà non sembrava avere bisogno di ulteriori consigli. «Delle tematiche sociali ho fatto la mia bandiera di vita», disse una volta che lo coinvolsero nel dibattito sulla riuscita di un Lucio Dalla a pugno chiuso per un concorrente di X Factor. Vero: difficile trovare nella storia della canzone italiana un canzoniere meno disimpegnato del suo. Zdanov in Lamborghini. E se la Lamborghini non va bene – ha detto in questi giorni – la vendo e compro una Panda. Fedez scrive canzoni d’amore col contagocce, per questo si notano di più, di solito con Francesca Michielin e sono quelle che fanno saltare il banco ma ci torneremo. Gran parte dei suoi versi sono invece l’eco del rumore di fondo social che imperversa. Scartano i calembour di bassa lega del dibattito pubblico, gli apprendisti sofisti del talk-show politico avrebbero molto da imparare da lui (non viceversa).

Piccolo borghese

Ancora il testo di Pop-Hoolista, ballata più jovanottista che maxpezzaliana (i due riferimenti maggiori di un rapper sempre pochissimo rap, accanto ai Blink 182), dopo aver tirato in ballo Trenitalia e figli di papà prosegue con il verso: «L’italiano è scaltro, l’italiano è furbo / l’italiano è contro le unioni gay/ ma poi si fa inc... dal politico di turno». Che ci riporta alla gran cagnara di questi giorni. I diritti, le unioni gay sono un terribile buco nero della politica italiana da decenni a questa parte. «Passare metà del tempo a sputare su chi è diverso / per poi nel tempo libero andare coi travestiti», già compitava Fedez in Si scrive schiavitù si legge libertà (2013). E non ci vuole tanto altro per trovare lì il cuore retorico del suo intervento sul ddl Zan al 1° maggio: tanta cagnara sul politicamente corretto (e scorretto) – riassumo – per continuare ad andare in segreto coi trans, dire n*** e dire f***.

Se c’è un cosa che fa imbufalire i rapper di scuola italiana, figli orgogliosi della strada, scugnizzi di quartiere, fratelli della periferia (vera o finta fa lo stesso) è da sempre la rispettabilità piccolo borghese. Perché nasconde la banalità del fascismo quotidiano. Così come i poliziotti (le “guardie”) che sgommano nelle strade del quartiere in cerca di cannette e documenti nascondono la violenza e il sopruso di classe. Esagero? Gira proprio in questi giorni un meme di Che Guevara con addosso la t-shirt di Fedez. Carino. D’altra parte il tema dei rispettabili signori che vanno a trans fu già di Califano e allora di correttezza politica non se ne sentiva il bisogno. Ma l’ipocrisia piccolo borghese è il bersaglio di cento e una canzoni d’autore, da De Andrè in giù. Per qualcuno sarà un paradosso, ma se il giudizio universale di questa settimana vede schierati a destra Pio e Amedeo (figli degeneri e perbenisti di Checco Zalone e Lino Banfi) e a sinistra il perbene Fedez – che viene dal mondo dei centri sociali sempre sia lodato – in fondo ci è andata bene. O no?

Le canzoni di Fedez vagheggiano un’Italia anni Ottanta che non c’è più. C’è mai stata? Un’infanzia praticamente mai vissuta (è nato nel 1989 a Milano-Rozzano), sentita dire, spesso evocata dal sapore della provincia odorosa di Arbre Magique del maestro Max Pezzali con un doppio salto mortale: la nostalgia della nostalgia delle canzoni. Notazione sulla milanesità e negli anni Ottanta: Pezzali è figlio di Claudio Cecchetto e della sua fabbrica di malinconica spensieratezza. Fedez appartiene in origine, attraverso J-Ax degli Articolo 31, al piccolo laboratorio di Franco Godi autore di Caroselli e jingle celebri, molto più incline alla satira e alla novelty rispetto al suo collega pigmalione.

Il termine “italiano”

L’uso del termine “italiano” nelle canzoni di Fedez (e del suo compare J-Ax) varrebbe un libro intero. Concetto prepolitico (quindi anti-politico), argomentazione da bar, tassonomia barzellettistica (l’italiano, il tedesco, l’inglese, il marocchino). Sapore di Toto Cutugno con il cellulare al posto dell’autoradio e i sacrifici della propria famiglia contro i politici ladri (“Craxi Driver”). Ius soli: «Non conta se ci nasci / conta se la ami» (L’Italia per me, J-Ax, Fedez).

Un traballante esserci insomma, il cui nemico è tutto il nazionalismo da operetta degli ultimi anni. In pratica: Salvini. Fedez venne postato su Twitter con in mano il cartello “Stop invasione della Lega nord”. Conseguente litigata con Gasparri (che lo chiamò “coso colorato”). Rampogna a Jovanotti, colpevole di essere stato troppo morbido in un tweet con Salvini. La Lega è «insulti razzisti e xenofobia» attaccò il rapper milanese. E in questo modo continuiamo a seguire le fonti del discorso del 1° maggio. Aggiunse nei giorni di uno dei tanti Convegni per la Famiglia naturale ecc ecc: «È contro natura credere in un uomo che cammina sull’acqua e risuscita». Battuta buona. Gli rispose un certo Jacopo Coghe: «Vuole metterci nei campi di concentramento», poi citato sul palco dell’Auditorium. Ma quella volta un gruppo di sacerdoti invocò un esorcismo.

Il terreno di Salvini

Ora, non è Fedez che invade il terreno di Salvini, cioè la politica. Semmai il contrario. A patto che un terreno, qualcosa di solido su cui poggiare i piedi, esista ancora. Il nome di Salvini venne scritto al centro di una delle canzoni più ascoltate degli ultimi vemt’anni: Vorrei ma non posto. Fedez e J-Ax gli sfilarono la pedestre metafora dei comunisti col rolex. Salvini non ha mai perso l’occasione per rispondere. «Gli farebbe bene un anno di servizio militare», twittò. E aggiunse che le sue canzoni preferite di Fedez erano Magnifico e 21 grammi.

Per forza: la prima, cantata in coppia con Francesca Michielin, è la vera ragione sociale dell’impresa Fedez: il duetto innamorato confuso nei ruoli e nelle responsabilità (ma tutto sommato felice, di una felicità struggente) in stile cinema italiano che è stato appena replicato a Sanremo in Chiamami per nome, è capace di affondare le radici nella profonda confusione di tutti noi. 21 grammi, con la metafora scivolosa «di felicità per uso personale» sembra presa di peso dal repertorio di Tiziano Ferro. Altra pietra della scandalo di questi giorni, bersaglio di una antica omofobia di Fedez. Eppure risulta che un chiarimento e delle scuse tra i due ci sono state qualche anno fa, con la promessa di lavorare assieme a un progetto contro il bullismo. La canzone, inoltre, era legnosetta ma satirica: «Guarda che l’Italia è un paese bellissimo/ a 7 anni sono andato a Bravo Bravissimo/ andare coi trans è normalissimo eccetera eccetera». Il mostro era il protagonista.

 

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