Ogni ufficio ha le sue ripicche e incomprensioni fra colleghi. I litigi, nei migliori dei casi, vengono risolti con un confronto interno. Nel caso del Washington Post il confronto è diventato pubblico, nei giorni scorsi, sulla piazza di Twitter.

E ha portato prima alla sospensione di un giornalista per un mese senza stipendio e poi al licenziamento di una sua collega. Il primo aveva ricondiviso un tweet sessista.

La seconda lo aveva preso ad esempio per indicare il pessimo clima nella redazione, iniziando poi una campagna pubblica contro altri colleghi e dirigenti del giornale.

Tutto questo è stato vissuto in diretta da chiunque seguiva i protagonisti della vicenda, di fatto aprendo una serie di questioni che superano i contorni del caso particolare. E riguardano il comportamento che si deve tenere sui social network e il confine labile fra quello che accade nella vita virtuale e nella vita reale.

Da questo contesto, con tutte le sue contraddizioni, nasce il licenziamento della giornalista. «Un disastro social», come hanno scritto altri giornali concorrenti al Washington post, che ha travolto la direttrice Sally Buzbee, esattamente un anno dopo la sua nomina al vertice del giornale.

Il tweet sessista

Questa storia è fatta di una lunga serie di tweet. Il primo è stato scritto da Cam Harless, uno YouTuber che ovviamente sta gongolando per tutto il caos che ha creato.

Nella sua bio su Twitter ora si identifica come “l’uomo che ha distrutto il Washington Post”. «Ogni ragazza è bi-», ha scritto Harless nel suo tweet. «Devi solo capire se è (bi) -polare o (bi) -sessuale». 

La battuta sessista è stata ritwittata da Dave Weigel, un giornalista politico specializzato soprattutto nel raccontare il mondo conservatore. Lo stesso Weigel era stato protagonista di un’altra storia controversa, quando erano state pubblicate alcune sue vecchie email in cui criticava apertamente alcuni conservatori.

Allora Weigel aveva deciso di dimettersi dal Washington Post, salvo poi essere assunto nuovamente qualche anno più tardi. Questa volta il “retweet” sessista gli è costato un mese di sospensione senza stipendio. Anche se Weigel si è immediatamente scusato e ha rimosso il tweet incriminato. 

L’attacco

Solo che nel frattempo contro di lui si era già scagliata Felicia Sonmez, anche lei redattrice politica. E anche lei protagonista di alcune vicende controverse del passato. Nel gennaio 2020, poco dopo la morte di Kobe Bryant, era stata molto criticata per aver condiviso, ancora una volta su Twitter, gli articoli sulle vecchie accuse di molestie nei confronti dello stesso Bryant.

Sempre Sonmez aveva denunciato il Washington Post per discriminazione, perché le era stato imposto di non occuparsi dei casi di molestie, dopo aver denunciato di esserne stata vittima. Per il giornale era un modo per preservarla da un tema che la coinvolgeva emotivamente. Per lei era stato un tentativo di zittirla su questioni che le stavano particolarmente a cuore. Il caso è stato archiviato dal tribunale lo scorso marzo.

La valanga social

È probabile che tutte queste vicende del passato, mai davvero risolte, siano rimaste in sottofondo, in attesa dell’occasione per deflagrare. Lo scoppio c’è stato appunto con il tweet sessista ricondiviso da Weigel.

Sonmez ne ha prima chiesto conto in una chat interna al giornale. E poi, non soddisfatta delle reazioni che ha ricevuto, ha mosso le sue accuse in pubblico: «È fantastico lavorare in una redazione dove sono consentiti retweet come questi».

Solo che non si è limitata a questo. Per giorni ha continuato a discuterne con altri colleghi, ricondividendo gli screenshot di chi l’aveva bloccata e alcuni dettagli del passato. Con una tesi di fondo: nella redazione di uno dei giornali più importanti al mondo regnano discriminazione, disparità e abusi. Quel tweet era soltanto la manifestazione visibile di tormenti più profondi.

Jose Del Real, anche lui giornalista del Washington Post, ha twittato sostenendo che Weigel ha sbagliato. Ma anche che Sonmez avrebbe dovuto accettare le sue scuse, «senza fomentare internet per attaccarlo». In coda a una serie di tweet di Sonmez, Lisa Rein, anche lei giornalista della redazione politica, ha twittato «please, stop» (per favore, smettila). Poche parole che sono diventate quasi un meme.

Un’altra fonte interna al giornale, citata da Vanity Fair, esprime bene quello che nel frattempo sembrava essere il sentimento più condiviso dagli altri giornalisti: «Credo che Felicia all’inizio avesse ragione. Il problema è stato poi continuare a insistere, mettendo in mezzo sempre più colleghi». 
Anche perché, nel frattempo e come accade spesso sui social, il caso è diventato sempre più discusso. Quella che poteva essere una palla di neve è diventata una valanga che ha travolto prima il Washington Post. E poi la stessa Sonmez.

Il licenziamento

La direttrice Sally Buzbee – la prima donna nella storia al vertice del Washington Post – è intervenuta con una lettera pochi giorni dopo, chiedendo un maggiore rispetto fra colleghi: «Ci aspettiamo che i dipendenti si trattino con gentilezza l’uno con l’altro, sia in redazione sia online», ha scritto Buzbee.

«Siamo una redazione collettiva che fa giornalismo rivoluzionario. Uno dei grandi punti di forza nella nostra redazione è il nostro spirito collaborativo. Il Washington Post si impegna a creare un ambiente inclusivo e rispettoso, privo di molestie, discriminazioni o pregiudizi di qualsiasi tipo».

Un intervento che non è bastato a placare Sonmez, che anzi ha continuato a twittare, prendendosela anche con la direttrice. Fino a quando, giovedì, ha ricevuto la lettera di licenziamento: «Il Post ha deciso di terminare il rapporto di lavoro con effetto immediato per cattiva condotta che include insubordinazione, diffamazione dei tuoi colleghi online e violazione degli standard in materia di collegialità e inclusività sul posto di lavoro».

«I tuoi tentativi pubblici di mettere in discussione le motivazioni dei tuoi colleghi giornalisti, sulla base del fatto che abbiano espresso opinioni diverse dalle tue, minano anche la reputazione di integrità e correttezza giornalistica del Post».

Stare sui social

È probabile che il caso farà comunque ancora discutere. E lo farà ovviamente su Twitter. Anche perché è solo l’ultimo episodio di una discussione più ampia che riguarda il modo in cui i giornalisti stanno sui social.

Nel tempo quasi tutte le testate si sono dotate di un codice di autoregolamentazione con una serie di regole su come i giornalisti debbano comportarsi online, anche con i loro profili privati. La Bbc riassume questo concetto in poche parole: «Don’t do anything stupid», non fate nulla di stupido.

In generale, l’idea è che non possa esistere una separazione netta fra il comportamento del singolo giornalista e la reputazione del giornale per cui lavora.

Il problema è che è difficile includere in poche linee guida un ventaglio di comportamenti diversi. Il Washington Post ha ritenuto grave il retweet sessista di Weigel. Ma ancora più grave la crociata di Sonmez. Sarebbe successo lo stesso se il confronto fosse rimasto offline o confinato nelle chat private della redazione?

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