Era quello che si chiama “un omino”. Basso di statura, minuto, mani certo non da lavoratore. Era molto cerimonioso, vestito di grigio con una pochette nel taschino; salutava tutti con un mezzo inchino, ascoltava con tranquillità tutte le nefandezze di cui, nel corso dei decenni, è stato accusato e spiegava che c’era stato un equivoco, che poteva spiegare, che non aveva nulla da temere, che era stato assolto, che era stato prescritto.

Portava, fin da giovane, un parrucchino con un accenno di frangetta sulla fronte che gli dava quell’aspetto un po’ da cameriere. Chissà se lo porterà nella tomba. Stiamo parlando di Flavio Carboni, nato novant’anni fa nel minuscolo paese di Torralba (Sassari) e morto l’altra notte a Roma per infarto.

L’omino col parrucchino comparve sulla scena all’inizio degli anni Settanta, con le credenziali di “immobilitarista” e “finanziere”, qualifiche che non comportano diplomi universitari. Era nell’entourage del gran maestro della massoneria sarda Armandino Coronas, lo conoscevano tutti i politici sassarini, da Antonio Segni a Francesco  Cossiga.

Era svelto di idee e non aveva paura di frequentare ambienti piuttosto borderline, dai cravattari romani della Banda della Magliana, ai prestanome della mafia siciliana che agivano nella capitale, al famoso banchiere Michele Sindona che a quei tempi furoreggiava.

Cementificare la Sardegna

Il suo primo campo d’azione è stato la Sardegna, che era all’epoca una sorta di far west di sequestratori, ma che con lui poteva trasformarsi in un sogno: la destinazione di un turismo di fascia medio alta. Centinaia di chilometri di coste con il miglior mare d’Europa da cementificare: villaggi turistici, porti, porticcioli, locali notturni, compound esclusivi per il jet set, amministratori che non vedevano l’ora di lasciarsi corrompere per firmare licenze edilizie, variazioni di piani regolatori. Il tutto a un’ora di volo da Milano.

Un investimento sicuro, e infatti la mafia siciliana, alla ricerca di luoghi dove mettere i suoi soldi (l’eroina rende molto), incaricò il suo cassiere romano, Pippo Calò di procedere. Un altro affare Carboni lo fece come business partner di Silvio Berlusconi con i faraonici progetti di Olbia 2 e della Costa Turchese, oltre che della villa Certosa che diventerà famosa.

Di lì Carboni passò nel giro più grande: favorire, dietro compenso naturalmente, l’esportazione di capitali che la buona borghesia smaniava di concludere velocemente per paura dell’arrivo dei comunisti in Italia.

Quel giro comprendeva lo Ior (la “banca vaticana”) e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, che fu estremamente generoso nel finanziare le sue iniziative immobiliari. Quando Calvi, sull’orlo della bancarotta, fu arrestato e dovette cedere la direzione del Banco al suo vice Roberto Rosone (uomo di tutt’altra tempra), questi cominciò a prendere visione del modo in cui l’istituto era stato dissanguato.

1980 Roma, Roberto Calvi presidente di Banco Ambrosiano

Il Banco Ambrosiano

E i crediti esagerati concessi alle società di Flavio Carboni erano evidenti e scandalosi, per cui ordinò di bloccarli e a Carboni di rientrare. Ma qui l’omino col parrucchino che pareva tanto gentile, mostrò le unghie e comunicò l’atteggiamento ostile di Rosone a uno dei capi della banda della Magliana con cui era in affari, tale Ernesto Diotallevi, detto il banchiere della malavita,  perché «facesse qualcosa».

Diotallevi non perse tempo, incaricò un killer di fiducia che salì a Milano per uccidere Rosone. Rosone uscì alle 8 di mattina da un edificio che ospitava una filiale del Banco e percorse qualche metro sul marciapiede verso la macchina con autista che lo aspettava, quando gli venne incontro un uomo vestito con un elegante cappotto di cammello che gli sparò e lo colpì alla coscia, Rosone cadde, l’uomo gli sparò di nuovo, ma la pistola si inceppò.

Arrivò una motocicletta che se lo caricò, ma nel frattempo una guardia giurata che aveva visto tutto, prese la mira e lo centrò nella schiena. E si scoprì così che l’uomo col cappotto di cammello era Danilo Abbruciati uno dei gangster che sarà poi protagonista di “Romanzo criminale”. 

E così si scoprì anche che dirigere il Banco Ambrosiano era diventato un mestiere decisamente pericoloso. Era l’aprile del 1982, mancavano pochi mesi all’ultimo viaggio di Roberto Calvi a Londra, inseguito da una muta di mafiosi, camorristi e piduisti che volevano i pochi soldi che gli rimanevano e farlo fuori prima che parlasse con qualche magistrato.

Chi c’era ad accompagnarlo? Ma naturalmente il nostro Flavio Carboni, che gli trova una pensione di poco prezzo, gli prepara il caffè, ascolta le sue telefonate, controlla il contenuto della sua borsa e riferisce, il 18 giugno 1982 allo studio privato del presidente Giulio Andreotti, che il banchiere che tutti cercano è in buona salute e di buon umore.

Come si sa, però, tanto di buon umore non doveva essere, se il banchiere viene trovato impiccato e penzoloni dal ponte dei Frati Neri alla fine della giornata, con mattoni nelle tasche della giacca e persino nelle mutande.

Si discusse a lungo se era suicidio o omicidio, i servizi segreti sia inglesi che italiani spinsero il coroner per la prima alternativa, più comoda per tutti, ma alla fine – su insistenza della famiglia Calvi (che giustamente badava anche ai termini della polizza sulla vita sottoscritta dal banchiere), dopo ben tre autopsie e anni di inchiesta, la conclusione ufficiale fu che Calvi era stato strangolato da mani robuste e poi portato, cadavere, sul ponte. Questo allontanò i sospetti su Flavio Carbone: un omino con quelle manine non avrebbe potuto farlo.

La borsa di Calvi

Ancora adesso resta il dubbio se a mettergli le mani intorno al collo sia stato il boss della mafia di Altofonte, Franco Di Carlo (associato ai servizi segreti), o il camorrista cutoliano, Vincenzo Casillo, (anche lui associato ai servizi).

Carboni intanto se l’era filata da Londra, portandosi via la borsa di Calvi, che conteneva carte in grado di inguaiare non pochi cardinali. Arrestato in Svizzera nell’estate e poi estradato in Italia, fece avere la borsa del banchiere al giornalista Enzo Biagi che l’aprì in diretta televisiva. Ma era vuota, dentro c’era solo un passaporto diplomatico del Nicaragua, dove l’Ambrosiano aveva – stranamente – una filiale.

Assolto dall’accusa di aver ucciso Calvi, Carboni tornò alla vita di sempre: “facilitatore” di grandi affari, investimenti sardi, pale eoliche, palazzinari romani, consulente finanziario di grandi giornali, doppiogiochista con i servizi, consulenze sui misteri italiani. Sempre discreto, gentile, servizievole.

Lo accusano anche di aver fondato una nuova loggia, la P3 insieme a Denis Verdini e Marcello Dell’Utri, ma ne uscirà pulito. Sostiene di aver avuto un ruolo nella fine del comunismo, e di avere qualcosa da dire sulla scomparsa della ragazzina Emanuela Orlandi.

Mario Portanova, il giornalista che con lui stava scrivendo la sua storia (L’uomo del sottobosco, di prossima uscita presso l’editore Chiarelettere) lo descrive come un novantenne ancora straordinariamente intraprendente, dalle mille conoscenze, sempre alla ricerca di nuove imprese e di nuovi affari, sempre al telefono, sempre in aereo. Dovendo definirlo, Portanova usa per lui il termine «imprenditore di confine»; ma evidentemente aveva anche un talento in più, che gli ha garantito una lunga vita, con pochissima galera.

Di tutte le storie legate all’omicidio Calvi e che riguardano Flavio Carboni, una mi aveva colpito per il suo surrealismo. L’avevo pubblicata in Patria 1978-2008 e di lì la riprendo:

«A Roma, il 6 ottobre 2005, ovvero 23 anni dopo i fatti, si apre il processo per l’omicidio Calvi. La corte d’Assise conclude che, come in un giallo di Agatha Christie, una moltitudine di tipacci aveva motivo di uccidere il banchiere, ma purtroppo non si è potuta raggiungere una prova definitiva contro alcuno di questi soggetti. Nelle pieghe del processo si è appreso che Calvi si era gravemente ferito, tanti anni prima, al dito indice sinistro nella sua casa di campagna, per cui il banchiere spesso indossava una protezione di gomma sul dito. Il professor Simpson, che condusse la prima autopsia, non trovò ferite sul dito che pure Calvi avrebbe dovuto usare nella sua arrampicata sul ponte. Né trovò una protezione di gomma. Ma quando Carboni venne arrestato in Svizzera, nella sua valigia c’era il dito di gomma. Chiamato a darne spiegazione, Carboni non ha avuto difficoltà. Ha spiegato che il dito di gomma gli serve per fare giochi di prestigio e si è offerto di darne una prova. Ha tirato fuori un fazzoletto e ha cominciato a fare dei movimenti con le dita, ma nessun gioco gli è riuscito. Il suo avvocato gli ha intimato: “Basta, per favore”».

     

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