Con la pillola abortiva in autosomministrazione a domicilio, diminuirebbero i problemi legati all’obiezione di coscienza che ha numeri ancora troppo alti, soprattutto in determinate regioni. In Italia, di rado si insegna l’ivg nelle facoltà di Medicina. Inoltre, la pratica farmacologica in autosomministrazione a domicilio diminuirebbe i problemi legati all’obiezione
In Italia, di rado si insegna la pratica dell’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) nelle facoltà di Medicina, nonostante l’articolo 15 della legge 194 asserisca che le regioni, d'intesa con le università e con gli enti ospedalieri, «promuovono l'aggiornamento del personale sanitario sull'uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'Ivg».
La possibilità di accedere all’aborto farmacologico tramite la pillola abortiva in autosomministrazione a domicilio, estesa in tutta Italia, potrebbe far fronte all’obiezione di coscienza, minimizzare la spesa per le aziende ospedaliere ed essere fautrice di una maggior autodeterminazione delle donne.
La formazione
Anna Pompili, ginecologa e consigliera generale dell'Associazione Luca Coscioni, spiega a Domani: «Nel 2022 la percentuale di medici obiettori è diminuita. Questo non significa automaticamente che tutti i non obiettori andranno a praticare le Ivg. C’è una criticità in alcune regioni, che riguarda la formazione di nuovi specializzandi che poi saranno gli specialisti, che eventualmente andranno a fare le Ivg».
Questo perché «non è prevista, in molti programmi di specializzazione, questo tipo di formazione. Motivo per il quale l’associazione Amica (Associazione medici italiani contraccezione aborto), della quale sono co-fondatrice, è molto impegnata nella formazione dei medici». L’associazione fa corsi di formazione nelle Ulss e nelle aziende ospedaliere del Lazio, rivolti soprattutto alla formazione sull’aborto farmacologico.
Quello che manca, inoltre, è una formazione sul tema dell’Ivg che sia standardizzata in tutte le università italiane. La dottoressa Pompili, infatti, ricorda che «abbiamo professori universitari che dicono che la contraccezione di emergenza farmacologica fa i cripto-aborti, ognuno fa e dice quello che gli pare. Non c’è un obbligo ad attenersi all’evidenza scientifica. C’è un problema di formazione riguardo agli aspetti della salute e dei diritti riproduttivi. In particolare, si dimentica che l’articolo 15 della legge 194 impone la formazione e l’aggiornamento del personale sanitario e questo, puntualmente, non avviene. È l’articolo più disatteso».
Procedure e pratica clinica
Il problema, continua Pompili, è che «viene fatta una distinzione tra aborto volontario e aborto spontaneo o morte intrauterina: ma le procedure, dal punto di vista medico, sono le stesse. Il fatto che non venga insegnata la pratica dell’Ivg significa che, a volte, si seguono procedure inadeguate che sfiorano la malpractice in medicina, anche per quanto riguarda l’aborto spontaneo o la morte intruterina spontanea. Per cui sono tantissime le strutture che non usano il mifepristone per l’aborto spontaneo, considerato la bestia nera, perché è il farmaco dell’aborto volontario; facendo una pessima pratica clinica».
La situazione legata all'insegnamento della pratica dell’Ivg, dunque, è la più varia, a livello nazionale: è difficile dare un dato che racconti tutti gli ospedali d’Italia. Il grande problema è la disomogeneità a livello regionale e la mancanza di un’indicazione specifica a livello nazionale sull’insegnamento della pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza e questo, per la dottoressa Pompili, non è accettabile.
Un dato da rilevare, per la dottoressa, è il livello di obiezione che diminuisce in Lazio tra i giovani medici: «Parlo con loro e capiscono il ragionamento sul diritto all’aborto, si prestano a fare le Ivg senza problemi».
La mancanza di un programma nazionale
La dottoressa Pompili, in merito alla questione relativa alla formazione, spiega a Domani: «Ognuno si organizza come può e non c’è, spesso, una formazione rigorosa dal punto di vista scientifico».
Sussiste, inoltre, un problema di ricambio generazionale di medici non obiettori che effettuano le Ivg: «Nel Lazio siamo relativamente pochi, poi dipende da struttura a struttura. Non si ragiona ancora in termini di territorializzazione delle procedure farmacologiche, e questo carica gli ospedali di un lavoro che non dovrebbe essere fatto da questi ultimi per quanto riguarda la farmacologica. Per cui promuovere la territorializzazione a livello ambulatoriale e a livello consultoriale risolverebbe tanti problemi e, in realtà, potrebbero bastare pochi medici».
Le procedure farmacologiche per l’interruzione di gravidanza, infatti, hanno superato quelle chirurgiche. La dottoressa Pompili afferma: «Andremo sempre di più in questa direzione. Se nelle regioni ci saranno ancora differenze di approccio all’aborto farmacologico, le regioni che ne fanno meno uso o che le effettuano solo in regime ospedaliero, si ritroveranno sempre più in difficoltà. La pillola è un cambiamento culturale: non è più il medico al centro, come per l’Ivg, ma la donna».
L’autosomministrazione
Se dessimo più spazio all’aborto farmacologico in autosomministrazione avremo meno problemi legati all’obiezione: «A fine 2024 solo due regioni lo permettevano: il Lazio e l’Emilia-Romagna. Una cosa di una gravità allucinante e con spese maggiori, dato che ricoverare una donna è una spesa perché c’è l’occupazione di un posto letto».
Con questa metodologia, per Pompili, «si risolverebbero molti aspetti legati all’obiezione di coscienza, ma anche all’organizzazione degli spazi: è la procedura ambulatoriale quella che semplifica e minimizza l’ostacolo rappresentato dall’obiezione di coscienza», e per questo viene costantemente ostracizzata dalla propaganda anti scelta.
L’altro motivo dell’ostilità su questa pratica è proprio legata all’autogestione del farmaco: «Un sistema sanitario paternalistico non può concepire il fatto che una persona gestisca, in prima persona, una procedura medica. Soprattutto se quella persona ha un genere ed è una donna».
C’è, dunque, una doppia ostilità: una legata al fatto che sarebbe «una facilitazione che da molti è interpretata anche come banalizzazione della procedura e questo non è assolutamente vero, ce lo racconta la letteratura internazionale». Poi c’è la paura che le donne possano sfuggire «all’esercizio di un potere da parte dei medici, delle strutture e dell’organizzazione sanitaria»; a un controllo tout court dell’istituzione medica.
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