Fine corsa. Il Gran Premio-farsa tenuto domenica 29 agosto in Belgio, sul circuito di Spa-Francorchamps, segna non soltanto una delle vergogne più grandi nella storia della Formula 1, ma anche la definitiva perdita di senso per la disciplina sportiva che più di tutte ha rappresentato il matrimonio d’interesse fra sport e industrialismo.

La parata di due giri dietro la safety car, condotta sotto la pioggia battente e coi soli scopi di salvare una parvenza di regolarità e non rimborsare il biglietto agli spettatori, è l’ultima tappa di un’involuzione in corso almeno dall’inizio del nuovo secolo e fin qui contrastata in modo inefficace, per tentativi segnati da volenteroso empirismo e poco altro.

Certo, il Circus continuerà a vivere e a vedere celebrate gare che in linea di principio dovrebbero essere un inno al mito della velocità e alla capacità dell’ingegno umano nel domarla e renderla funzionale al conseguimento di un obiettivo. Ma se si guarda alla questione da una prospettiva di storia culturale della Formula 1, non si può non cogliere come la due-giri di Spa rappresenti l’evoluzione di un cammino verso la post-industrialità dello sport che su questa disciplina sportiva ha avuto l’impatto più profondo e stravolgente. Tale dinamica va raccontata attraverso una sequenza di massima che si snoda lungo tre tappe.

Il patto fra performance e tecnologia

Si diceva del matrimonio d’interesse tra Formula 1 e industrialismo. Un connubio che risale agli albori dello sport moderno, coevo della rivoluzione industriale. L’elemento della coincidenza temporale trova in alcune discipline sportive un quid rafforzativo perché esse si prestano a divenire banchi di prova per uno fra i settori industriali determinanti della modernità: quello della locomozione.

Tutte le discipline che prevedono l’uso di un mezzo per lo spostamento e la copertura di distanze più o meno ampie (ciclismo, motociclismo, automobilismo, sport nautici) presentano una doppia matrice, agonistica e industriale. La dimensione agonistica guarda allo sviluppo della performance, dunque alla costruzione di mezzi da gara che siano massimamente efficaci per il raggiungimento del risultato di gara.

Ma al tempo stesso la performance di gara è un test di validazione per la tecnologia sviluppata in laboratorio: il campo di gara non è soltanto giudice della prestazione ma anche fornitore di feedback relativamente alla validità della tecnologia approntata. Esso riferisce se quella tecnologia sia effettivamente la più efficace fra quelle fin lì sperimentate e sperimentabili, o se viceversa vada corretta e dove, ma sempre all’interno di un percorso della sperimentazione che non troverà mai un punto assoluto di realizzazione.

Viene così a crearsi un circolo virtuoso fra performance e tecnologia e, su un livello superiore, fra sport e industria poiché i test tecnologici realizzati sui campi di gara forniscono dati utili a uno sviluppo industriale e conoscitivo che va oltre la dimensione meramente agonistica. Di questa dinamica della reciprocità, la Formula 1 è stata per gran parte del Ventesimo secolo espressione massima.

La rottura del rapporto fra performance e spettacolo

La logica industriale fin qui descritta manca tuttavia di un elemento, l’altra merce che lo sport produce, oltre alla performance, nella sua dimensione di fenomeno industriale e culturale di massa: lo spettacolo.

Esso, in termini di definizione sociologica, va inteso come “circostanza organizzata per generare emozioni collettive” e costituisce elemento cruciale dal momento stesso in cui lo sport cessa di essere un fenomeno esclusivamente praticato per trasformarsi anche in un prodotto da vendere. Chi lo compra è un attore collettivo che abbiamo imparato a etichettare come “pubblico”. E il pubblico dello sport compra una merce che si chiama spettacolo e si fonda sulla produzione di emozioni collettive.

In un contesto di piena salute industriale di una disciplina sportiva, l’aumento della performance determinato dallo sviluppo di tecnologia è sinonimo di aumento di spettacolo. Ciò significa che auto sempre più veloci determinano gare sempre più emozionanti (a patto che venga garantita la sicurezza dei piloti, va da sé). E dentro questo schema di doppio incrementalismo (+ performance = + spettacolo) la Formula 1, in quanto disciplina sportiva massimamente emblematica del matrimonio fra sport e industria, ha prosperato fino alla fine del secolo scorso. Però a un certo punto quel meccanismo si è inceppato, fino a rompersi.

Succede nel momento in cui la tecnologia sviluppata dai laboratori per migliorare la performance si trasforma in tecnologia fine a se stessa. Cosa se ne fa di monoposto sempre più potenti se tutta quella potenza non può più essere sprigionata in circuiti che rimangono quelli? Con l’inizio del Ventunesimo secolo ci si trova in Formula 1 al cospetto di un paradosso: auto potenzialmente velocissime che danno vita a gare pressoché statiche, dove non vengono quasi più prodotte emozioni (cioè, essenzialmente, i sorpassi che contano per cambiare l’equilibrio di gara) e le gerarchie in pista mutano soltanto con le soste ai box.

Si prende atto che l’eccessivo sviluppo di tecnologia non significa aumento dello spettacolo, ma che anzi forse lo penalizza. Con conseguenze negative a cascata: minore vendibilità dello show televisivo, costi di sviluppo esorbitanti per ottenere risultati minimi, crisi e scomparsa delle scuderie minori.

Rispetto a un andazzo che sembra portare verso la morte sicura del Circus, i suoi responsabili abbracciano una linea pienamente post-industriale: bloccare l’incremento di performance nella speranza che ciò faccia tornare lo spettacolo. Non esattamente l’elogio della lentezza, ma certo l’affermazione che nello sport emblema della velocità bisogna andare un po’ più piano. Nel corso degli anni vengono posti limiti alle dotazioni con sollecitazione a economizzare le risorse.

Una linea di ragionamento che nel secolo scorso sarebbe parsa un non senso, poiché la logica dell’industrialismo è quella dell’incremento senza limiti. E invece la disciplina industrialista per eccellenza afferma il principio della decrescita. Per salvare la merce-spettacolo viene sacrificata la merce-performance, con grave disappunto dei team più ricchi che invece vorrebbero continuare a investire in ricerca e sviluppo perché la loro prospettiva è non soltanto agonistica.

Muore anche lo spettacolo

La scelta di sacrificare la performance (e la tecnologia) allo spettacolo si dimostra pagante? Sì e no. Negli anni più recenti capita di divertirsi un po’ di più nel seguire i gran premi, ma l’impressione è che si continui a procedere per tentativi. Basta un minimo riaccendersi del tono spettacolare di gara perché le scuderie più ricche reclamino l’allentamento dei limiti e dunque un nuovo equilibrio fra spettacolo e performance.

La diatriba è lunga quanto questo primo ventennio di Ventunesimo secolo e promette di avere aggiustamenti continui poiché, come già avveniva in piena epoca industriale, il livello ottimale non esiste e dunque si procede per aggiustamenti continui. Ma poi si giunge alla svolta di domenica 29 agosto 2021, col Gran Premio di Spa-Francorchamp. Che per di più cade in piena era-Covid, con tutti i problemi che la pandemia ha creato anche a questo settore dello sport. In quella circostanza va in frantumi anche la merce spettacolo, il prodotto a beneficio del quale si è stati disposti a sacrificare performance e sviluppo tecnologico incondizionato.

La scia di monoposto che per due-giri-due sfila dietro la safety car potrebbe essere rappresentata come il corteo funebre della Formula 1, che per di più nel suo delirio industriale continua a veder frustrato ogni tentativo di governare l’unica variabile che invece rimane imprevedibile: quella meteorologica. Viene deciso che la rappresentazione della gara (non la gara, che è altra cosa) vada portata comunque avanti in qualche modo, pur di compiere la missione formale. Ma che spettacolo è mai questo? E quale customer satisfaction, per un pubblico a cui si vende un prodotto fallato pur di non garantirgli rimborso?

Sulla base del regolamento viene assegnata la metà dei punti in palio (12,5 al “vincitore” Max Verstappen, primo dopo le prove, 0,5 al “decimo” Carlos Sainz), quando invece la soluzione più corretta, oltreché emblematica, sarebbe quella di accreditare i punti pieni della vittoria a colui che per primo taglia il traguardo: il conducente della safety car. Dategli quei 24 punti e chiudete qui lo spettacolo sportivo. Da ora in avanti sarà solo fiction. 

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