Un omaggio poetico a Jorge Bergoglio, tra silenzi e simboli, parole di Márquez e incontri con Borges: un viaggio nei legami segreti tra fede e letteratura, spiritualità e carne, in cui l'immaginazione diventa preghiera laica e le scarpe rotte raccontano la santità del cammino umano
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
A papa Francesco, in queste ultime settimane, ho dedicato il silenzio e un magone che non riuscivo a sciogliere.
Non sono una credente, non sono nulla, forse non lo so nemmeno io cosa sono, perché in realtà credo in tantissime cose, anche senza saperlo. Credo in un sesto senso che ci azzecca sempre sulle persone, anche quando tutti mi prendono per pazza, in una chiaroveggenza bianca come le candele, credo alle voci della gente alle processioni in Campania, alle lacrime nascoste delle vecchie, all’energia tristissima e azzurra delle veglie funebri, ai simboli lasciati dai morti nei fondi di caffè e nei petali delle rose bagnate. Bergoglio veniva dall’America Latina, e questo ha aperto un canale involontario tra me e quest’uomo.
Consonanza con Márquez
Durante una visita a Cartagena in Colombia, nel 2017, Papa Francesco pronuncia le parole di Gabriel García Márquez, quelle tratte dal Mensaje sobra la paz y la educaciòn del 1998. Bergoglio prende in prestito la voce di Gabo e parla di pace e di predominio dell’immaginazione, parla di ritorno all’invenzione e all’immensa energía creadora delle storie, e questo mi è bastato a capire che esisteva una zona luminosa di simboli e significanti in comune, al di là della religione.
In questi giorni ho pensato a uno dei miei racconti preferiti di Márquez, La santa, contenuto dei Dodici racconti raminghi e ambientato proprio a Roma, città che Gabo amò moltissimo: Márquez arrivò nella capitale nel 1955, come corrispondente colombiano di El Espectador e per seguire le condizioni di salute di papa Pacelli, tormentato da un incessante singhiozzo; inoltre, frequentò il Centro sperimentale di cinematografia e conobbe Cesare Zavattini.
Nel racconto La santa Márquez costruisce una Roma deformata dal real maravilloso, una Roma in cui si udiva solo «il rumore dell’acqua, che è la voce naturale di Roma».
Una Roma traslucida e tagliata dal sole, una città santa e profana, che Márquez rende lussureggiante e primitiva, come un angolo ombroso di Aracataca.
Papa Francesco, con la sua ironia scabra, i suoi guizzi spesso indisciplinati e la sua umiltà, somiglia molto a Margarito Duarte, il personaggio del racconto di Márquez, descritto con un aspetto da romano antico e con una tenacia imprevedibile da schiacciasassi. Margarito Duarte percorre a piedi tutta Roma e consuma le scarpe che si era portato dall’America Latina, Margarito Duarte arranca, Margarito Duarte è un peregrino, così come sono peregrinos i dodici racconti della raccolta.
Papa Francesco, nella sua bara, aveva le scarpe consunte e sfatte, quelle calzature rotte che contrastavano con i paramenti sacri. Quelle scarpe sono il correlativo oggettivo perfetto, il ponte di cuoio tra la parola del peregrino Francesco e la letteratura márqueziana: Bergoglio impara da Márquez le vestigia di un linguaggio carnale, il culto di un sacro che nasce dal basso, dai corpi e dai loro umori e dai loro singulti, dalla pelle del sud del mondo.
Il linguaggio di Bergoglio è sempre stato politicamente popolare: Bergoglio prende in prestito da Márquez il mistero di una spiritualità profondamente incarnata, e la sua lotta contro la chiesa corrotta («la corruzione spuzza!», dirà papa Francesco) è in dialogo vivo con lo sguardo critico di Márquez verso il Vaticano.
Nel racconto La santa, Márquez descrive i tentacoli di un potere vaticano sordo alle richieste del popolo, che richiede a gran voce la canonizzazione di una nuova santa, una santa di sangue e acqua, una santa che si nasconde dietro i sassi bollenti e che ha gli occhi gialli del popolo.
C’è una consonanza tra Bergoglio e Márquez, che è fatta di foglie morte e foreste: Márquez non è stato un uomo di fede, è stato però un grande uomo di visione, e nella sua letteratura c’è il distillato di una professione laica e creaturale, istintiva e non dogmatica.
La sua letteratura è come una confessione, è una parabola che crea nuovi simboli, un credo viscerale che gocciola nella mistica, e apre una zona franca e libera in cui c’è un erotismo e una divinità dei corpi, elevati finalmente a nuovo credo. La letteratura di Márquez non è una letteratura spirituale strictu sensu, ma è una letteratura di profezie e di spirito, in cui ogni cosa avviene e si deforma in un gioco fittissimo di analessi, in cui tutto scompare e si rifonda, in una genesi incessante.
E Bergoglio sembrava aver colto una goccia dello spirito creaturale di Márquez: quella goccia eterna rimarrà nelle scarpe rotte, nel suo «Buonasera!» pronunciato al momento dell’elezione, nei suoi discorsi sulla pace e contro il riarmo, nel coraggio di prendere posizione contro il genocidio a Gaza, nell’attenzione verso i migranti, la comunità lgbtq+, le periferie del mondo, l’ambiente.
Rimarrà la sua solitudine, rimarrà il suo non essere stato spesso capito.
Rimarrà il suo sorriso mentre indossa copricapi precolombiani, la sua camminata solitaria in una piazza San Pietro vuota durante il lockdown, una scena da crepuscolo degli dei. Rimarrà la sua ultima donazione, fatta ai detenuti di Regina Coeli, e, tornando a Gaza, la sua richiesta prima di morire: che la papamobile lasciata a Betlemme dopo un viaggio del 2014 diventi una piccola unità sanitaria per i bambini palestinesi.
Non rimarrà l’ipocrisia dei potenti della Terra che oggi lo incensano ma che lo hanno lasciato solo su questioni cruciali.
Il rapporto con Borges
Bergoglio conobbe anche un altro gigante della letteratura latinoamericana, Jorge Luis Borges: quando Bergoglio aveva solo 28 anni e insegnava al Colegio Inmaculada Concepción di Santa Fe, invitò Borges a tenere una lezione ai suoi studenti.
All’epoca Borges aveva sessantasei anni: prese un pullman e viaggiò dieci ore di notte per raggiungere Bergoglio e i suoi alunni, passò due giorni al Colegio e infine selezionò alcuni racconti scritti dai ragazzi. Borges rimase impressionato dal carisma e dall’umiltà di quel giovane maestro gesuita, dal suo amore per gli studenti, la volontà di metterli al centro e ascoltare le loro opinioni. Di contro, Bergoglio rimase affascinato dalla capacità dello scrittore argentino di parlare di Dio proprio mentre ne dichiarava l’impossibilità.
Con Borges il rapporto è stato ellittico: se Márquez incarna una visione cuentista, calda e popolare del sacro, Borges è l’eterno bibliotecario dell’infinito, l’uomo che ha scrutato Dio negli interstizi del linguaggio e negli orli della forma, ma senza mai afferrarlo. Borges era agnostico, non credeva nella resurrezione, ma la sua opera è un vero e proprio compendio di eternità.
Le vite di Márquez, Borges e Bergoglio sono state molto diverse, ma c’è un alito, un fiore, un granello in comune: è l’idea che, in quest’epoca, la letteratura possa essere ancora una via privilegiata per interrogare l’assoluto, una preghiera furiosa in grado di risuonare nei secoli.
E che l’energia creativa rimane sempre un fuoco incandescente, una forza di trasfigurazione e visione capace di svelare l’umanità, nei suoi labirinti, nelle sue biblioteche e nelle sue disperazioni.
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