Per un papa come Francesco che fino all’ultimo ha cercato e voluto rapportarsi alle persone, fossero o no cristiani, “fedeli”, praticanti, quella immagine del suo incedere lento e solo in pieno Covid, il 27 marzo 2020 sul sagrato della basilica di San Pietro bagnata dalla pioggia, coglie un momento molto doloroso, ma al tempo stesso emblematico.

In un certo senso tutti siamo diventati vulnerabili di fronte alla pandemia, tutti avevano bisogno della sua preghiera. In un certo senso il papa interpretava quel bisogno universale e gli dava voce. Era solo, solo lui, proprio lui che del rapporto con i “fedeli” aveva già fatto un cardine del suo papato, che dai cosiddetti “bagni di folla” traeva visibilmente conforto ed energia.

Dalla parte dei deboli

Ripetutamente, eppure non in maniera costruita ad arte, la sua predicazione è stata indirizzata a tematiche universali: la difesa dell’ambiente, la fine delle guerre, l’accoglienza dei migranti, la marginalità. Per questo suo schierarsi dalla parte dei deboli, dei vulnerabili, di coloro che meno hanno è stato spesso criticato.

Ma la compassione e la misericordia sono sentimenti che non debbono necessariamente basarsi su analisi raffinate e tradursi in strategie che tengano conto di costi e benefici. Profeti e predicatori non sono in competizione con economisti, sociologi, studiosi di geopolitica anche se, talvolta, è sbagliato prescindere da quanto grazie a loro conosciamo.

Le distanze fra quanto la predicazione di Bergoglio ha domandato in termini di scelte politiche, ambiente, guerre, migrazioni e povertà, e quanto i capi di governo, democratici e non, hanno fatto in questi anni, sono abissali. Non a caso, quei problemi si sono sostanzialmente aggravati. Nessuna voce da sola può riuscire se non si crea una massa critica di stati, preferibilmente democratici, con unità di intenti e condivisione di obiettivi. Questa può essere definita la tragedia della contemporaneità. Con le sue prediche Bergoglio l’ha fatta risaltare in tutta la sua incomprimibile complessità.

Papa di minoranza

Oggi, parte non piccola della mole di commenti positivi sulla predicazione di papa Francesco appartiene alla sfera dell’ipocrisia, quell’omaggio involontario che il vizio (e i suoi cultori, i viziosi) fa alla virtù, ipocrisia facile, forse inevitabile, sicuramente da criticare.

Qualcosa da criticare nella predicazione del papa c’è, non soltanto dal mio personale punto di vista: quello che attiene alla vita, quando ancora non c’è, interruzione della gravidanza, e quando è diventata umiliante e non più tollerabile, ovvero, come porvi termine. Sono tematiche sulle quali il papa è rimasto fortemente, pigramente tradizionalista.

Nel complesso, Francesco è probabilmente stato non una voce clamante nel deserto, ma un papa di minoranza nella comunità del clero, non solo nella Curia romana, tollerato, ma non approvato. Giusto e opportuno chiedersi, certamente lui stesso ci ha pensato, quante delle sue posizioni sociali e più propriamente politiche, largamente progressiste, continueranno a influenzare le valutazioni e le prassi della chiesa cattolica.

Nel conclave prossimo venturo centootto dei centotrentacinque cardinali che hanno diritto di voto sono stati nominati da lui. Una qualche affinità di idee e condivisione di priorità e obiettivi, peraltro non posta come precondizione della nomina, è abbastanza, ma quanto?, probabile.

Quei cardinali continueranno la ricerca della pace, giusta duratura, la difesa dell’ambiente, la riduzione della povertà e della marginalità? Quante di queste tematiche rimarranno priorità della chiesa cattolica? Solo così il lascito del pontificato di Francesco sarà fermento di crescita culturale, morale e politica, della vita nelle comunità. 

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