A Montecitorio c’è una targa che ricorda il primo e solo parlamentare italiano ucciso dalla mafia. È lì, nel salone d’ingresso del palazzo, dal 30 aprile del 2009, giorno del ventisettesimo anniversario della morte di Pio La Torre. Deputato per tre legislature, sindacalista a Corleone nell’infuocato Dopoguerra, al tempo del suo omicidio era segretario del Partito comunista in Sicilia quando in Sicilia si faceva politica con la pistola.

Quella targa l’ha voluta un presidente della Camera che ha mosso i primi passi nel Fronte della gioventù, lanciato da Giorgio Almirante al vertice del Movimento Sociale, poi leader di Alleanza nazionale e poi ancora vice di Berlusconi nel suo secondo governo.

Gianfranco Fini è un post fascista che ha deciso di onorare un uomo che per una vita si era battuto contro i poteri criminali, uno che laggiù era alla testa dei braccianti che occupavano le terre, forconi e bandiere rosse, morti e feriti per un pezzo di pane.

Uno dei figli di Pio La Torre, Franco, storico, cooperante internazionale, pacifista, se lo ricorda bene quando – insieme a sua madre Giuseppina e a suo fratello Filippo – parlò con Fini. Dopo pochi mesi da quell’incontro, la scopertura della targa in parlamento.

«Mi colpì il fatto che quel gesto venisse da un rappresentante della destra e non fosse mai passato per la mente dei suoi predecessori, che potevano invece rivendicare l'eredità a pieno titolo. Presidenti della Camera, dopo la morte di mio padre, erano stati Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante», scrive oggi Franco La Torre nel suo ultimo libro che s’inoltra nei territori incomodi dei silenzi e delle indifferenze intorno ai “delitti eccellenti” di Palermo.

Le delusioni di una stagione

La vita e il lascito di Pio La Torre si confondono con le vicende familiari e con quelle del Pci, del Pds, dei Ds e infine del Pd e in più generale con i partiti che si sono misurati con la “questione mafia” e con la figura ingombrante di un siciliano che era un capopopolo.

Il libro ha un titolo, L’Antimafia tradita, riti e maschere di una rivoluzione mancata, che racchiude le delusioni di una stagione e con malinconia (mai con rabbia) ripercorre le tappe di una memoria che se ne va: «L’impegno contro il sistema di potere mafioso, via via che ci si trasforma, come nel caso specifico del Pci, si affievolisce e si allontana da Pio La Torre, del quale si offusca anche il ricordo».

Distrazioni e dimenticanze che non riguardano certo solo il Pci, «tanto è vero che, guardando al panorama politico attuale, si incontra una certa difficoltà a intravedere quale partito spicchi per il suo profilo dichiaratamente antimafia».

Il prima e il dopo s’inseguono fra le pieghe di una storia che affonda le radici nei feudi dell’isola, che passa dal cemento del “sacco” di Palermo, che continua in via Botteghe Oscure a Roma con La Torre nel Comitato Centrale del Pci e stretto collaboratore di Enrico Berlinguer.

E che finisce in una mattina di primavera in un budello palermitano, quando una mitraglia di fabbricazione americana impugnata da un sicario al soldo di Totò Riina uccide lui e l’amico Rosario Di Salvo, la sua ombra. Quale è il movente, perché hanno assassinato Pio La Torre?, chiediamo noi giornalisti al generale Carlo Alberto dalla Chiesa appena sbarcato in Sicilia per diventare un giorno dopo prefetto e cento giorni dopo anche lui carne da macello. Risponde il generale: «Per tutta una vita».

In mezzo alla sua prima e alla sua seconda esistenza c’è la legge che ostinatamente ha voluto e che porta il suo nome (insieme a quello dell'allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni) sull’associazione mafiosa – il famoso 416 bis – e sulle misure patrimoniali contro le illecite ricchezze. È il tesoro che ci ha lasciato.

Ma cos’è rimasto dell'esempio di Pio La Torre ormai a quasi quarant’anni dalla sua scomparsa? «Mio padre, ne sono sicuro, rimarrebbe un po’ perplesso nel vedere l’antimafia seguire, ormai da anni, lo stesso canovaccio, che si autocelebra e che scambia l’analisi e l’azione con il calendario degli omicidi delle vittime innocenti. L’antimafia come liturgia che celebra il passato ma non guarda verso il futuro».

La brutale cacciata da Libera

Il quarto e il quinto capitolo de L’Antimafia tradita riportano i frammenti più dolorosi degli ultimi anni, l’intensa esperienza di Franco La Torre dentro Libera e la sua brutale cacciata dall’associazione decisa da don Luigi Ciotti. Una ferita che ancora sanguina: «L’incontro con quel movimento costituisce un passaggio importante della mia vita, non solo del mio impegno antimafia. A Libera ho conosciuto tante persone, che ho ammirato per la loro passione, dalle quali ho appreso e che mi hanno aiutato a elaborare il lutto e trasformarlo in azione..».

C’è sofferenza e stupore nelle parole di Franco La Torre, anche dopo il tempo passato. I ricordi sono densi di affetto: i campi estivi sui beni confiscati, la difficile avventura per risanare i conti di una costola internazionale dell’associazione gestita con disinvoltura, i seminari di studio, i ritiri, i viaggi per incontrare i militanti di Libera France a Parigi e quelli di Nein Danke a Berlino.

Fino a quando, nel novembre del 2015, all’assemblea nazionale ad Assisi, sale sul palco e dopo un intervento di dodici minuti precipita tutto. È la prima volta che Franco La Torre racconta pubblicamente ciò che è accaduto. La sua versione è profondamente diversa da quella fornita da Ciotti nell’immediatezza dei fatti, meno rumorosa (il prete lo definì sprezzantemente un “tuttologo”) ma decisamente più dettagliata.

Il tema posto da La Torre ad Assisi: le involuzioni dell’antimafia, l’incapacità di Libera di non avere saputo cogliere quello che avveniva a Palermo con lo scandalo dei beni sequestrati nelle mani della giudice Silvana Saguto e di non avere percepito gli umori di Mafia Capitale.

A pagina 181 del libro, La Torre cita anche un episodio preciso ripreso dalla sua relazione letta ad Assisi: una riunione, quantomeno inopportuna per i personaggi che vi parteciparono, nella sede romana di Libera in via Quattro Novembre.

L’argomento: vicende di Ostia alla vigilia dello scioglimento del X municipio per infiltrazioni mafiose. Forse è il passo del discorso che ha scatenato l’ira di don Ciotti, di sicuro il sacerdote ha congedato l’intervento di La Torre con un altezzoso «non abbiamo bisogno di lezioni» e qualche giorno dopo – alla richiesta di un incontro – l’ha liquidato con un sms che viene riportato integralmente: «Quando mi sarà possibile sono disponibile all’ascolto.

Per quanto riguarda il tuo ruolo nella segreteria nazionale è venuto meno il rapporto di fiducia con me e con l’ufficio di presidenza. Abbiamo percorso un tratto di strada insieme». Fine.

Da quel momento Franco La Torre non l’ha più visto né sentito: «Non ho mai avuto l’opportunità del confronto con don Luigi...Anni di impegno volontario sepolti e, intanto, girava la voce che a Libera avessero un dossier su di me, contenente prove delle nefandezze commesse». Altre voci, messe in circolazione ad arte, trasportavano l’indiscrezione che La Torre volesse soffiare il posto a Ciotti.

Montante e il disegno eversivo

Qualche pagina è dedicata anche allo scabroso affaire Montante, il vicepresidente di Confindustria “nel cuore” di un boss di Cosa nostra e magicamente trasformato in un faro dell’Antimafia: «Ritengo il fenomeno Montante un disegno eversivo, volto a minare le istituzioni democratiche...Non ho capito don Luigi Ciotti, a indagini in corso, che motivo avesse a rinnovare “ad Antonello“ tutta la sua fiducia». Ma cosa è successo in questi ultimi anni a Libera?

Il Male e gli eroi solitari

L’idea che si è fatto Franco La Torre: «Non si lotta da soli contro la mafia. L’afflato ispiratore, organizzazioni che si univano per un’azione comune, sembra avere esaurito la sua carica». E cosa è successo all’intero movimento? «Oggi l’antimafia sembra essere diventata uno stanco rito dove sempre le stesse persone ricordano i caduti di una terribile guerra».

L’antimafia tradita dalla narrazione che vuole eroi solitari che combattono il Male, tradita da coloro i quali hanno pensato di eliminare gli avversari nelle aule giudiziarie, l’antimafia tradita da quella politica che «non ha scelto di dare alla lotta alla mafia la priorità che merita».

L’appendice al libro è riservata al testo della relazione di minoranza della prima Commissione parlamentare antimafia, quella del 1976, firmata dai deputati La Torre, Benedetti, Malagugini e Terranova e dai senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano e Maffioletti. Un documento prezioso sugli intrecci fra mafia e politica di quasi cinquant’anni fa. Sembra antica, eppure è ancora una bussola per orientarsi nei segreti dell’Italia del malaffare.

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