Quando vinceva, Chris Froome non piaceva quasi a nessuno. Adesso invece è facile invaghirsi di lui. Adesso che arriva 111° in una cronometro di 12,2 chilometri all’UAE Tour a oltre 2 minuti dal vincitore, il suo connazionale Joshua Tarling, che ha la metà dei suoi anni.

È che prima eravamo convinti che fosse un automa (questa è la versione migliore, gli altri sospettavano di peggio), adesso siamo finalmente sicuri che è umano, uno che come noi sbaglia, fatica, arranca, e alla fine perde. Eppure non smette. Ha deciso di bere la sua amara borraccia fino in fondo, anzi sembra godersi un mondo questo finale di partita da very common people.

I soliti maligni dicono che lo fa perché ha ancora un anno di contratto, e in questo 2025 solitario e final ma apparentemente non triste guadagnerà cinque milioni e mezzo di euro per andare in giro in corse minori a sfoggiare il suo illustre passato: vincitore di sette grandi Giri in carriera, unico corridore in attività a poter vantare la tripla corona, ossia il successo in Giro Tour e Vuelta. Come ha detto con poco garbo istituzionale Sylvan Adams, il patron della Israel-Premier Tech, Froome non ha avuto «un buon rapporto qualità-prezzo». Lo hanno preso alla fine del 2020, non ha mai vinto una corsa.

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Il primo anno il suo miglior risultato fu un 22° posto in una tappa del Tour degli Emirati, quello che sta correndo in questi giorni. Nel 2022 un unico exploit, il terzo posto al termine di una fuga nella tappa dell’Alpe d’Huez al Tour, la montagna che non aveva mai digerito quando i Tour li vinceva. Nel 2023 corse pochissimo, e sempre alla periferia dell’impero: in Australia, Ruanda, Repubblica Ceca e Cina. L’anno scorso non è andato oltre un 27° posto nella classifica finale del Tour di Ruanda, il paese che a fine settembre ospiterà il primo Mondiale africano, a meno che la guerra al confine col Congo non si allarghi troppo.

Il frullatore

Il 20 maggio Froome compirà 40 anni, e ne saranno passati esattamente sette dalla sua ultima vittoria, il Giro d’Italia 2018, che rovesciò con un’azione romantica di cui non lo credevamo capace. La doveva alla sua storia, e all’Italia, paese in cui era diventato un corridore. Lo aveva preso nel 2009 Claudio Corti alla Barloworld, vedendoci qualcosa che agli altri sfuggiva: allora Chris aveva ventitré anni, non sapeva stare in gruppo, in discesa frenava perché aveva paura. Ma aveva le idee molto chiare su quello che voleva diventare: invece di dividere un appartamento con i suoi compagni di lingua inglese, prese una casa da solo a Chiari, nella Bassa bresciana, e imparò un italiano praticamente perfetto.

Imparò anche a correre, nonostante qualche svarione, come quando in una tappa del Giro d’Italia del 2009 scattò sulla salita di San Luca, a Bologna, e poi si piantò e la finì zigzagando, vinto dalle pendenze. L’anno dopo passò al Team Sky, e insieme divennero i padroni di un’era del ciclismo. Dal 2013 al 2017 Froome vinse quattro Tour su cinque, soltanto Vincenzo Nibali riuscì a interrompere il suo predominio fatto di ritmi asfissianti in pianura e di frullate in salita.

Ma in Francia i dittatori erano visti con un certo sospetto: era troppo doloroso il vuoto nell’albo d’oro (ma non nella memoria) che aveva lasciato quel baro di Lance Armstrong. E figuriamoci se Froome poteva funzionare, con quelle gambine che impazzivano in salita come un frullatore della Girmi: sospetti, dossier, gossip, insinuazioni. E i tifosi sulle strade del Tour gli sputavano addosso, tiravano pugni ai suoi gregari, lo minacciavano di spaccargli le ossa. Un giorno uno gli lanciò una tazza di pipì e gli gridò dopé, dopato.

La maglia rosa

In Italia non siamo così lacerati dal passato, o magari dimentichiamo più in fretta. Al Giro 2018 Froome era sub iudice, era venuta fuori una sua positività al salbutamolo, ma lui aveva sempre sofferto di asma, e insomma nell’attesa di una sentenza l’Italia sospese il giudizio e l’incredulità, come nelle opere di finzione. Lui aveva già vinto quattro volte il Tour e una la Vuelta, ma aveva bisogno del Giro per sentirsi infinito. Non era cominciato bene: era scivolato nella ricognizione di Gerusalemme, e si era incastrato col ginocchio destro sotto le transenne. E più avanti caduto come un birillo su un tornante, salendo a Montevergine, battendo ancora una volta la parte destra del corpo. Ma anche quella volta non si arrese: voleva un’impresa, e soltanto più tardi capimmo che non era vincere una tappa o il Giro.

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L’impresa era farci cambiare idea sul suo conto, dimostrarci che anche lui era capace di osare, di inventare, di rischiare, che anche Chris Froome era degno del nostro amore. Scelse la tappa del Colle delle Finestre, quella con la salita in sterrato, sassi e polvere che fa tanto ciclismo eroico. Tutto quello che gli era sempre mancato, se lo prese in un pomeriggio pieno di grazia e di coraggio. Mancavano ottanta chilometri e duecento metri al traguardo, Froome si era girato, aveva visto i muri di neve e le facce dei suoi avversari, e aveva deciso che era venuto il momento di cambiare la sua storia. Lo aveva sentito dire tante volte che le sue vittorie non erano belle come quelle di Nibali e di Contador, che a lui mancavano la fantasia, l’azzardo, il cuore. Doveva recuperare più di tre minuti in classifica, per farlo ci voleva una pazzia, e la fece. Guardò gli altri un’ultima volta, poi li lasciò al loro destino normale, e andò incontro alla leggenda.

La maglia gialla

Da allora Froome non ha più vinto. Il 12 giugno 2019, nei dintorni di Roanne, sulla rive gauche della Loira, il destino lo aspettava. Ancora su una strada francese. Al Delfinato, la corsa di preparazione al Tour, quello che doveva essere il quinto per lui. Quel giorno c’era una cronometro, e la mattina Froome uscì in ricognizione. La strada era dritta, in leggera discesa, lui si soffiò il naso mentre andava veloce, non si avvide di una raffica di vento che gli attraversò la ruota davanti. Andò a sbattere violentemente contro un muro, si frantumò: frattura esposta del femore e dell’anca destri, rotto anche il gomito e alcune costole, oltre a diverse lesioni interne.

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Da allora solo dolore, interventi, chiodi, placche, rieducazione. Froome in tutti questi anni ha corso per ricostruirsi, per non smettere così, dopo una discesa sbagliata. Diceva che il suo obiettivo era vincere un giorno il quinto Tour de France, come Anquetil, Merckx, Hinault e Indurain. Ma adesso sa che non succederà più. Allora dice che vorrebbe correre almeno un ultimo grande Giro, ma con i risultati che fa sembra soltanto un sogno. Lui si pensa Froome, ma ormai è uno dei tanti. E quello che neanche l’impresa epica sul Colle delle Finestre aveva fatto, lo ha fatto vederlo soffrire, arrancare, staccarsi quando comincia la salita.

Quando lo abbiamo visto mortale come noi ci siamo appassionati alla sua storia, e abbiamo sperato in un improbabile lieto fine. Quando lo abbiamo visto vacillare, trascinarsi, incapace di trovare una soluzione, finalmente Froome ci è apparso per quello che è: un corridore romantico, un uomo ironico e dolce, un gentleman. Adesso che non vince più, fare il tifo per Froome è facilissimo. È come in quelle serie che ci hanno catturato, tenuti lì per giorni, mesi, anni, ci siamo appassionati, indignati, spaventati, rassicurati, divertiti. E aspettiamo l’ultima puntata come un evento, perché vogliamo sapere come va a finire. E magari piangere un po’, che ci fa bene.

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