La fuga dei giovani dall’Italia ostile. La scuola è inutile se non c’è futuro

Secondo l’ultimo rapporto del Cnel, tra il 2011 e il 2024, 630.000 giovani italiani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il Paese: il 7% dell’intera popolazione giovanile. Solo nel 2024 gli espatri sono stati 78.000, mentre 56.000 giovani provenienti da Paesi avanzati hanno scelto di trasferirsi in Italia. Il saldo di –22.000 persone certifica un’emorragia costante. La perdita di capitale umano accumulata in quattordici anni è valutata in 159,5 miliardi di euro, pari al 7,5% del Pil, un dato che da solo descrive la profondità del problema. L’Italia perde soprattutto competenze: tra il 2022 e il 2024, il 42,1% dei giovani emigrati è laureato. Nord, Centro e Sud partecipano a questa fuga, seppure con dinamiche diverse. La conseguenza è una nazione che invecchia, dove gli stipendi non crescono, la produttività ristagna e l'innovazione è quasi assente. In sintesi, l’Italia non riesce a trattenere chi dovrebbe garantirne il rinnovamento. È un dato spaventoso che si somma al crollo demografico e che prelude al collasso della nazione. Scuole demolite e cantieri bloccati: il Pnrr rischia di fallire, appello dei comuni in difficoltà Bamboccioni! A questa fragilità strutturale si aggiunge un clima politico poco favorevole verso i giovani. La recente presa di posizione della ministra dell’Università Anna Maria Bernini, che ha definito «poveri comunisti» gli studenti di medicina, non è nuova nel linguaggio istituzionale. Da quando sono nato, molti adulti che occupano posizioni istituzionali e politiche si sono divertiti a sbeffeggiare, deridere, umiliare, mettere a tacere e fare a pezzi verbalmente le generazioni successive, sempre da una posizione di supposto sapere e senza alcuna possibilità di replica. Ecco una piccola classifica storica delle migliori “blastate” degli ultimi anni: «Mandiamo i bamboccioni fuori di casa» (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze, 4 ottobre 2007); «Precaria? Dovrebbe sposare il figlio di Berlusconi che non ha questi problemi» (Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, 13 marzo 2008); «Chi si laurea dopo i 28 anni è uno sfigato» (Michele Martone, viceministro al Lavoro, 24 gennaio 2012; «Che monotonia il posto fisso. I giovani si abituino a cambiare» (Mario Monti, presidente del Consiglio, 1 febbraio 2012); «Gli italiani sono fermi al posto fisso, nella stessa città e magari accanto a mamma e papà» (Anna Maria Cancellieri, ministra dell’Interno, 6 febbraio 2012); «Il lavoro non è un diritto (…) Sul lavoro non dovete essere troppo choosy (schizzinosi)» (Elsa Fornero, ministra del Welfare, 27 giugno e 22 ottobre 2012); «Investite qui, gli italiani costano meno» (brochure dell’agenzia Ice, ministero dello Sviluppo, 2 ottobre 2016); «100mila giovani in fuga? Alcuni è meglio non averli tra i piedi. Mandare il curriculum? Meglio giocare a calcetto per trovare lavoro» (Giuliano Poletti, Ministro del Lavoro, 19 dicembre 2016 e 26 marzo 2017). L’inclusione della disabilità a scuola, la verità dei dati e quella vera Tutto permesso, nulla possibile Così, a furia di etichettare i giovani come “bamboccioni”, “choosy”, “sdraiati”, “sfigati”, 630.000 se ne sono andati. Il punto, però, non è solo il saldo negativo, ma le ripercussioni che questo avrà sul mercato del lavoro in un periodo caratterizzato da accelerazioni tecnologiche senza precedenti. In Italia non può esistere la meritocrazia, anche perché i vecchi non mollano la presa. Il nostro paese è sempre più vecchio, e le generazioni Millennial, X, Z si troveranno ad allinearsi alla pensione dopo i 70 anni. Raffaele Alberto Ventura, nel suo libro La teoria della classe disagiata (Minima Moralia, 2017) e oggi con La conquista dell’infelicità (Einaudi, 2025), scrive che i giovani disagiati «sono troppo ricchi per avere ambizioni e troppo poveri per realizzarle», e forse ha ragione. Forse avemo la generazione più ricca di sempre alla morte dei genitori, «ma anche la più infelice di tutte quelle precedenti. Forse questa è la società dove tutto è permesso ma nulla è possibile, dove l’ascensore sociale si è rivelato un’illusione». Fatto sta che oggi i cambiamenti in una società sono rapidissimi e si misurano in decadi. Il mondo per cui siamo stati preparati non esiste più. Questo, i giovani, lo hanno capito. Così, molti si conformano alla società dominante, quella dei consumi, mentre altri scappano, cercando nuove vie di fuga con l’imperativo del “va' in dove ti porta il cuore”. Non importa se è l’Australia o l’Islanda. Tutti conoscono la situazione, ma nessuno ne parla, perché non si sa come affrontarla. Così viviamo in una sorta di menzogna. La verità è che, attualmente, moltissimi dei nostri studenti sono inutili, non necessari, non impiegabili in maniera razionale nel mercato del lavoro. E forse è questo il motivo per cui molti di loro preferiscono fare un mese di lavoro ad Amazon e poi mettersi in disoccupazione. È in questa atmosfera che i giovani crescono: un mondo che sembra attivo e in espansione è in realtà finito in un vicolo cieco. E ora che la menzogna si è legittimata, ai ragazzi non resta che interiorizzare un profondo senso di ingiustizia. Quei ragazzi qui e altrove che i razzisti chiamano “maranza”. La violenza in una parola Questi dati dicono che oggi è impossibile che un ragazzo cresca e sviluppi le proprie capacità se il mondo non è fatto per lui e non ha per lui un senso. Quando manca la possibilità di essere utili, si produce stupidità. Questo corrompe le disposizioni, offusca le coscienze, scoraggia le vocazioni. Rende inutile il lavoro e la scuola. Una società acquista un senso solo quando comprende che queste capacità sono la sua ricchezza principale. I giovani hanno realmente bisogno di un mondo degno in cui crescere. Ma questo bisogno non corrisponde al mondo in cui si trovano a vivere. Questa è la fonte dei loro problemi. Il nostro problema, quello di noi adulti, educatori, genitori, insegnanti, imprenditori e politici è di porre rimedio allo squilibrio. E finora non ci siamo riusciti.