C’era una volta la Grande depressione (The Great Depression), quella del martedì nero del 1929. È arrivata poi la crisi del 2008, quella della Grande recessione (The Great Recession) raccontata anche nel film La grande scommessa di Adam McKay.

Oggi, dai dati recentemente pubblicati da Aidp (Associazione italiana dei direttori del personale), soffia un vento che porta con sé impressionanti numeri in merito alle dimissioni volontarie da parte dei lavoratori italiani. Su circa 600 aziende rientrate nello studio, le richieste di dimissioni volontarie sono aumentate del 91 per cento nella fascia dei 25-36 anni soprattutto nel nord Italia.

Non parliamo di quello che, nello specifico, sta accadendo nella sanità pubblica dove tra il 2019 e il 2021 oltre 9mila medici e altrettanti infermieri hanno scelto volontariamente di licenziarsi: in questo contesto dovremmo tenere in considerazione anche la reale e significativa variabile del burnout provocato dalla pandemia.

In ogni caso ad alimentare questo nuovo fenomeno di così tante dimissioni (The Great Resignation) concorrono in modo particolare non tanto la ricerca di migliori condizioni economiche e salariali, quanto il bisogno di trovare un nuovo equilibrio tra vita privata e lavoro.

Cambiamenti

Attenzione: non si tratta di persone che si licenziano al grido di «mollo tutto per aprire un chiringuito ai Caraibi» inseguendo un sogno nel cassetto. Sono persone determinate, consapevoli, con obiettivi chiari in testa, e che fuggono da situazioni professionali di grande insoddisfazione. Tutto ciò sta mettendo profondamente in crisi le aziende obbligando il ripensamento di alcune dinamiche lavorative fondamentali e sono sostanzialmente tre le principali motivazioni che i datori di lavoro dovrebbero tenere in considerazione per rispondere in maniera virtuosa a questo fenomeno.

Innanzitutto il potere decisionale si sta spostando. Se prima era esclusivamente l’azienda a prendere le decisioni organizzative che andavano a regolare lo svolgimento del lavoro (orari, tempi, spazi), con la pandemia qualcosa è cambiato e i dipendenti oggi si sentono molto più legittimati ad avanzare richieste di maggiore flessibilità e autonomia.

Tutti noi sentiamo un maggior bisogno e una reale possibilità di organizzare la nostra routine lavorativa in maggiore autonomia. L’azienda illuminata dovrebbe quantomeno permettersi di confrontarsi con i propri dipendenti su tali necessità anziché ostacolarle o negarle a priori. Il rischio è realmente quello di perdere tanti talenti per l’incapacità di adattarsi a queste nuove richieste.

Un bisogno di sicurezza

L’esperienza della pandemia inoltre ha spinto, quasi obbligato, le persone a riflettere sulle proprie fragilità, limiti, vulnerabilità riconsiderando così i propri bisogni primari. La salute, secondo la famosa piramide di Maslow, si trova all’interno dei cosiddetti bisogni di sicurezza, bisogni che si trovano sul secondo gradino, alla base della piramide e appena sopra i bisogni fisiologici di sopravvivenza.

Con tutto quello che sta succedendo nel mondo, compreso l’impatto psicologico che la guerra in Ucraina sta avendo anche sulle popolazioni non direttamente implicate nel conflitto, è ovvio che il bisogno di sicurezza è diventato un bene rifugio prioritario e imprescindibile ben più importante dei bisogni di appartenenza, di stima o di autorealizzazione. Quindi, un ambiente di lavoro che vuole mettere la persona davanti al professionista dovrebbe cercare di dare una risposta a questo bisogno di sicurezza.

Non è quindi solo di una sicurezza fisica o economica di cui stiamo parlando, ma anche familiare, psicologica, emotiva. Questa è la ragione per cui tante dimissioni sono causate dallo “stress”, ovvero per il non sentirsi al sicuro e riconosciute come persone che hanno il desiderio di trovare il giusto bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata: i nostri lavoratori hanno un conto corrente economico e un conto corrente emotivo.

Valorizzati dal lavoro

Infine, uno degli effetti a lungo termine della pandemia sembra essere quello di aver abbassato nelle persone la soglia di sopportazione e tolleranza rispetto a una vita che non le rende felici, e quando accade questo la vita lavorativa è il primo àmbito a pagarne le conseguenze. Sono più di due anni ormai che diciamo che la pandemia prima ancora di essere un’emergenza sanitaria ed economica è un’emergenza psico-sociale.

Il virus ha fatto questo, ha smosso le persone dall’interno obbligandole a farsi nuove domande: «Il mio lavoro mi permette di crescere?», «Il mio lavoro mi valorizza?», «Il lavoro che faccio mi rende felice?».

Queste sono domande che la generazione dei nostri padri non si faceva. Gli stessi padri, baby boomer, che oggi occupano quegli stessi posti dirigenziali e che non sono in grado di riconoscere le nuove domande dei loro dipendenti, figli della Gen X e Millenials. Se le risposte a queste domande sono negative, non basteranno bonus o aumenti di stipendio a tenere lì i lavoratori, così come quando all’interno di una famiglia dei figli vengono zittiti con mance o regali, per non sentire la loro voce e le loro necessità. Allo stesso modo le richieste dei lavoratori sono altre.

Protagonisti

Uno studio recente di McKinsey rivela come i dipendenti desiderino oggi più che mai, essere protagonisti della progettualità aziendale e cerchino relazioni e connessioni di valore tra i colleghi.

Che si tratti di lavoro, scuola o famiglia, ancora una volta la partita si gioca nello stesso campo: quello dei legami di valore e delle relazioni. Sempre più anche in ambito aziendale vinceranno quelle organizzazioni che sapranno prendersi cura dei rapporti interpersonali sistematizzando all’interno dei loro processi momenti di focus-group, teambuilding, incontri di staff-support. Serve un nuovo paradigma delle relazioni tra le imprese e le persone senza ovviamente rinunciare e perdere di vista gli obiettivi aziendali.

Questo nuovo bilanciamento passa attraverso un passo a due, passando da uno smart-working a un cosiddetto wise-working, dove la saggezza aziendale non sta solo nell’interessarsi dei lavoratori per la propria produttività, ma nel mostrare desiderio di ascolto e curiosità per le persone che rendono unica quell’azienda.

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