«Stanno uscendo tutti», dice Daniela infilandosi in un bar di Ostuni, la città bianca che nell’estate pugliese accoglie migliaia di turisti. Dopo trent’anni di carcere sono tornati in libertà capi e killer protagonisti della stagione più sanguinaria della Sacra corona unita. Non tornerà la quarta mafia degli anni Ottanta e Novanta con un omicidio a settimana, ma intanto nel 2021 il consiglio comunale di Ostuni è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

Daniela Foglietta Persano oggi porta i cognomi di entrambi i genitori, come due distintivi da esibire senza vergogna. Ha due occhi senza infanzia, le spalle di chi non ha giocato, la pelle luminosa di chi si è presa cura degli altri e ha preso da questa cura ossigeno. Inizia a raccontare la sua storia al presente. Non c’è nulla di remoto. Tutto è vivo: la latitanza dei genitori, l’omicidio di suo padre, boss della Scu, la scomparsa di sua madre e l’intera esistenza a domandarsi se lei sia viva o morta e cercarla tra i passanti, nella folla di turisti, nello sguardo di un’anziana signora entrata per caso nel bar.

Nel 1976, in un locale di Foggia dove fa intrattenimento, Silvana Foglietta, 18 anni, incontra Cosimo Persano, originario di Mesagne, la città di Pino Rogoli, fondatore della Sacra corona unita. «Mio padre era il boss della zona del Salento e, quando conosce mamma, era già latitante». Si innamorano all’istante questi due ragazzi cresciuti entrambi senza padre. Comincia così per Silvana una vita nell’ombra insieme al compagno. Rimane subito incinta.

Appena nata, Daniela, che porta solo il cognome della madre, viene lasciata ad altri. Lo stesso sarebbe avvenuto con i suoi fratelli: «Pagavano le persone che ci crescevano». I bambini passano da una casa all’altra della Puglia: «Siamo stati anche in trulli abbandonati, in posti senza luce», mentre i genitori vivono da fuggitivi. Daniela conosce suo padre all’età di quattro anni. «Ci hanno portato con loro in una casa a Taranto. Ma una notte sono arrivati i carabinieri, e mio padre è scappato dal tetto». Daniela cresce con lo spavento addosso e con una regola: «Dire che ero orfana di padre. Non potevo nemmeno pronunciare il suo nome».

All’inizio degli Ottanta, Daniela, 6 anni, e i suoi fratelli si stabiliscono a Ostuni da una signora. «Mamma è stata con noi per un periodo, poi è tornata in latitanza con mio padre, che a volte arrivava di notte per darmi un bacio mentre dormivo». Daniela allora non dorme più perché spera di vederlo. «Sul viso aveva una cicatrice per una sparatoria, la copriva con la barba». Daniela cresce e diventa la migliore amica di sua madre: «Si sfogava con me, mi raccontava di papà e di cosa faceva». Daniela è adolescente e comincia a vomitare tutto ciò che mangia.

L’omicidio del padre

A metà degli anni Ottanta Persano viene arrestato e mandato con un ergastolo al carcere di massima sicurezza. «Mia madre andò a Roma e trovò un ottimo avvocato che riuscì a ridurre la pena». Fino a ottenere nel 1988 i domiciliari e la libertà provvisoria. «Così papà riprese in mano gli affari, ma i conti non tornavano. La Scu si riunì di notte a casa nostra. Mio padre accusò i suoi uomini di averlo fregato. Quella notte decisero di farlo fuori».

Il 9 marzo del 1990, a bordo di una Golf rossa guidata dal suo autista, arriva a Torre Santa Susanna per affari, quando si presenta un commando armato di ragazzini che sparano all’impazzata. Persano, ferito, bussa alle porte, ma la gente resta asserragliata in casa per il terrore. «Nessuno gli apriva. Lo avevano gambizzato, si trascinava». Poi uno del commando lo finisce, sparandogli all’aorta. «La sera prima lo avevo accompagnato a firmare. Non voleva che uscissimo con lui, sapeva che era arrivata la sua ora. Era la Festa della donna, gli chiesi di fare un’eccezione».

Daniela Foglietta e Cosimo Persano festeggiano seduti in una Lancia Thema turbo diesel, mangiando un panzerotto. «Mi prometti di prenderti cura dei tuoi fratelli e di stare vicino a mamma? Mi chiese. La mattina dopo non andai a scuola, non smettevo di vomitare». Il 9 marzo del 1990, mentre i mandorli fioriscono, in casa Foglietta tutto comincia a cadere come un inesorabile autunno, a freddarsi come solo l’inverno pugliese sa fare. Da quel giorno Daniela prende il cognome del padre. Era necessaria la sua morte per far nascere una nuova sé: Daniela Foglietta Persano.

La scomparsa della madre

«Dopo il 9 marzo mio fratello non ha più parlato. Ad aprile nasce l’ultima sorellina. Io ho dovuto occuparmi di mia madre e dei miei cinque fratelli. Ho lasciato la scuola». La prof chiama la madre per convincerla a far tornare Daniela in classe perché era brava negli studi, ma Silvana ha altro per la testa. «Aprì un negozio di abbigliamento a Ostuni e provò a vendere la casa per avere soldi».

Dopo la morte del compagno, Silvana voleva solo una cosa: vendicarsi. «Le istituzioni le chiesero di collaborare e lei si rifiutò: io sono la donna di Persano Cosimo e non faccio l’infame. Era una donna caparbia. Ha amato più quest’uomo dei suoi figli. Ebbe il coraggio di incontrare l’autista di mio padre per sapere se aveva riconosciuto i killer e come avere i soldi dalle attività create da papà».

Una sera, attraverso la finestra, Silvana mostra alla figlia un Mercedes nero, con i vetri oscurati, appostato sotto casa. Poi le consegna una busta chiusa con dentro i nomi di chi ha ucciso Cosimo Persano. «Dopo una settimana uccidono l’autista di papà, bruciano il corpo con tutta la macchina. Dopo due settimane uccidono anche i genitori dell’autista perché facevano domande. Trovati in un pozzo».

Il 7 febbraio del 1991 Silvana arriva a casa trasformata: «Non era più bionda e riccia. Aveva un caschetto liscio color mogano». Infila il giubbotto di pelle, prende la borsa ed esce con la Renault 21. «L’auto fu ritrovata in periferia, con il vetro lato guidatore rotto e un sasso sul sedile. Le chiavi inserite nel quadro. Il giubbotto di pelle nel cofano. La borsa non c’era».

Nel fascicolo sul caso Foglietta viene riferito che alcuni ragazzini avevano rotto il vetro e provato a rubare lo stereo. La macchina era stata parcheggiata con cura. Da quel giorno di Silvana si sono perse le tracce: «Dopo 34 anni una parte di me pensa che lei sia sparita per proteggerci. L’altra parte aspetta che un pentito parli e ci dica dove si trova il corpo. La sogno tutte le notti. Ma se è viva perché non ha provato a mettersi in contatto con me?».

Nel marzo del 1991 Daniela ha 15 anni e inizia a collaborare con i magistrati: «Ho accettato subito». Con i suoi cognomi ingombranti torna a sedersi tra i banchi insieme ai ragazzi della sua età: «Andavo a scuola con la scorta. Nessuno voleva starmi vicino». Le chiedevano se avesse paura a collaborare: «Avrei avuto più paura a stare con un uomo della Scu».

Da grande, Daniela è diventata un’assistente sociale. Poi ha studiato progettazione e ha aperto a Brindisi una comunità giovanile per minori con reati civili e penali: «Sono i figli della Scu. Sapevo come parlare con loro, conoscevo la lingua». Oggi la struttura è chiusa perché Daniela si è ammalata di tumore: «Io ho fatto un lavoro enorme su questo territorio. Perché me ne sarei dovuta andare? E se mia madre fosse tornata?»

Se oggi Silvana, trasformata dal tempo e da una vita nell’ombra, entrasse nel bar, Daniela è certa di riconoscerla. Le andrebbe incontro. Con i suoi occhi senza infanzia le direbbe: «Non so se sai come ho vissuto, mamma».

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