«Ho sentito il mio ultimo respiro. Non reagivo più, ero bloccata su una sedia e non riuscivo a muovermi». Francesca Simeoni ha 25 anni, a portarla sul punto di morte è stata l’anoressia nervosa, un disturbo del comportamento alimentare che può arrivare a uccidere. Siamo nel mese di maggio e il lockdown nazionale è appena finito. A quel punto per lei scatta qualcosa, capisce di aver toccato il fondo e chiede aiuto a casa: «Papà, sto morendo, non riesco più a respirare, sento che non supererò la notte».

Inizia così per lei un periodo di rinascita, con due ricoveri salvavita in ospedale, il primo dei quali nella sua città, Rieti, dov'è ancora seguita. E poi un percorso di cura a palazzo Francisci, il centro per la cura dei disturbi alimentari di Todi nel quale resta 10 mesi, fino al 6 marzo scorso.

«Ho smesso di mangiare quando ho iniziato la vita da fuori sede a Roma. Mi ero appena iscritta all’università, dentro di me però soffrivo già da prima», racconta. «Sono sempre stata indipendente dagli altri e a 18 anni mi sono fidanzata, perché per me era un valore aggiunto. I miei non l’hanno accettato, perché pensavano fossi troppo piccola e così ho iniziato una doppia vita, per nascondergli che vedevo ancora il mio fidanzato».

Da qui Francesca inizia a nutrirsi di menzogne e sensi di colpa per aver tradito i genitori. «Volevo punirmi per tutte quelle bugie, ma l’ho capito solo dopo». La sua vita a Roma, poi, è un’altra vita ancora. «Non sono mai riuscita a integrarmi. Stavo da sola e studiavo tutto il tempo, saltando sempre più spesso i pasti». Vuole essere la prima in tutto e mentre lei scompare arrivano risultati eccellenti, esame dopo esame. Non si accorge nemmeno che si sta ammalando.

A cinque anni dai primi sintomi, Francesca arriva a pesare 34 chili per un metro e 69 di altezza. Ogni giorno elimina qualcosa in più dal suo «piano» di alimentazione. Conta, calcola, pesa. «Di mattina non toccavo nulla, non potevo, significava bruciare le poche cartucce che avevo a disposizione. A pranzo mi concedevo venti grammi di riso scondito e a cena un po’ di carne o del merluzzo».

Il percorso di cure

Il primo tentativo di uscita dal disturbo risale a novembre del 2019. Francesca inizia un percorso semi residenziale a Città giardino, a Terni. Ma con l’arrivo del Covid-19 il centro chiude e da lì le cose per Francesca iniziano ad andare sempre peggio. «Stavo ore in cucina, da sola. Ho iniziato a parlare col cibo, oltre che con me stessa davanti allo specchio. Chiedevo alla me cattiva cos’altro volesse, perché non avevo più nulla da darle, mi ero privata di tutto, ma mi chiedeva sempre qualcosa in più».

Le bugie per non far preoccupare i genitori continuano, si mostra forte, nasconde la sofferenza e si rifugia nella sua immagine riflessa nello specchio. Un’immagine distorta. «Avevo una dispercezione del mio corpo molto forte. Probabilmente, è la sola cosa che ancora mi è rimasta, perché non riesco a rendermi conto del tutto della magrezza, il sottopeso che è rimasto», ma nonostante questo, dai disturbi alimentari se ne può uscire.

È per questo che vanno curati e trattati su più piani, non solo quello alimentare. «Di anoressia non si muore, è una malattia come tutte le altre: si cura e si guarisce», spiega la dottoressa Laura Dalla Ragione, psichiatra e direttrice del centro di Todi. «In Italia i centri sono ancora troppo pochi, ci sono regioni completamente scoperte, senza nemmeno un ambulatorio specializzato».

Secondo gli ultimi dati pubblicati dal ministero della Salute, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria sono le regioni in cui si muore di più a causa dei disturbi del comportamento alimentare. Nel primo semestre del 2020 i nuovi casi registrati sono stati 230.458, un numero dovuto anche agli effetti del lockdown, che ha portato a un aumento delle richieste di aiuto, sia di chi già soffriva di queste patologie, sia di chi ha iniziato a stare male proprio in quei mesi.

«Il telefono verde squillava di continuo. Il picco di telefonate lo notavamo nel periodo del lockdown, mentre in estate sono scesi, per poi aumentare di nuovo a ottobre». Nello stesso periodo del 2019 i casi rilevati erano stati 163.547 e 3.200 i decessi per anoressia. Anche nei registri nominativi sulle cause di morte i dati cambiano molto da regione a regione: l’incidenza è più evidente nelle regioni «scoperte», cioè sprovviste di strutture.

Sono sempre di più i ragazzi e le ragazze come Francesca, i dati dicono che ci si ammala sempre più giovani, ma in questo mare la sua storia è una goccia di speranza. «Serve tanta forza di volontà. Quando sono andata a Terni non ero convinta al cento per cento, facevo di testa mia. In più a marzo ha chiuso per il Covid-19 e quando telefonavo mi illudevano tutte le volte che avrebbero aperto la settimana seguente».

Nel periodo di restrizioni e chiusure, dettato dalla necessità di gestire la pandemia, il ministero dalla Salute ha lanciato un allarme nei confronti dei giovani che soffrono di questo tipo di malattie, proprio perché gli ospedali hanno trasformato la maggior parte dei reparti in terapie intensive o reparti Covid-19, sospendendo le cure a molte altre categorie a rischio.

Dall’altra parte, molti centri semi residenziali o ambulatoriali per la cura dei disturbi alimentari hanno chiuso, lasciando da soli i ragazzi che ne soffrono. A ciò si aggiunge la difficoltà per chi ne soffre di chiedere aiuto e scegliere di intraprendere un percorso di cure. Molte persone hanno aspettato mesi per un ricovero, si sono trovate a dover interrompere il trattamento o non poterlo iniziare, aumentando il rischio di aggravamento, cronicizzazione o ricaduta del disturbo a causa della pandemia.

La via d’uscita

«Invece con il Francisci è stato diverso, mi hanno seguita sotto tutti gli aspetti, sia fisico che psicologico, aiutandomi anche a superare i momenti di crisi, perché il percorso è davvero difficile, ma io ero decisa a portarlo a termine. La prima volta la dottoressa Dalla Ragione mi disse che in quelle condizioni non potevo entrare. Avrei dovuto affrontare un altro ricovero prima, e l’ho fatto. Quando poi sono entrata ero felicissima», racconta.

Nella maggior parte dei casi ci si trova davanti a pazienti che non ammettono di stare male. Per questo è molto importante intercettare i pazienti in una fase precoce del disturbo. Il tasso di ospedalizzazione per questi casi, infatti, è ovviamente molto più basso dove sono presenti strutture specializzate. È il caso di Veneto, Umbria, Emilia-Romagna e Lombardia. Tra le ultime invece c’è la Sicilia, che proprio oggi, però, in occasione della Giornata nazionale, farà un passo avanti a tutti.

Da anni in Italia si è aperto un dibattito sull’apertura negli ospedali del «codice lilla», specifico per persone che arrivano in pronto soccorso con un quadro clinico compromesso a causa di un disturbo alimentare. La Sicilia sarà la prima ad adottarlo. L’assessorato alla Sanità della regione ha infatti deciso di avviare un corso di formazione per tutti i medici e gli infermieri dei pronto soccorso regionali, che partirà ad aprile e durerà un anno.

«È un passo molto importante, perché negli ospedali arrivano centinaia di pazienti, ma trattandosi di persone che rifiutano le cure, vengono rimandati a casa. Con il codice lilla, invece, potranno avere le cure adeguate anche in ospedale», conclude la dottoressa Dalla Ragione.

Francesca intanto è tornata a casa e, anche se è passata solo una settimana dalle sue dimissioni, sta bene. «Mi sento una miracolata a essere ancora viva. Voglio che le storie come la mia vengano raccontate il più possibile per evitare che altre persone arrivino al limite».

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